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Quale ruolo ha la pubblicità nell’educazione civile e sociale?

La domanda me la sono posta leggendo le critiche piovute addosso all’ultimo spot CocaCola destinato al pubblico medio-orientale (qui il video).

La pubblicità mostra un uomo arabo dare lezioni di guida alla figlia e offrirle una CocaCola per infonderle coraggio di fronte alle sue incertezze al volante.

Premessa: In Arabia Saudita il re Salman ha annunciato che anche le donne potranno guidare, cosa ancora vietata nel Paese che rimaneva così baluardo di arretratezza.

Ora… le critiche sostengono che l’azienda americana sfrutti la “conquista” di questo diritto per fare marketing. Ma un pensiero sorge spontaneo: e quindi?

Uno spot Coca-cola, come immaginerete, ha un’enorme diffusione e fintanto che non veicola messaggi “sbagliati” direi che il problema non sussiste. Partendo dal presupposto che non è compito della pubblicità educare alla parità dei diritti, di genere e quant’altro. Personalmente credo che implicitamente e involontariamente la pubblicità abbia un potere straordinario. In quest’ottica chi la crea e la produce può (e dovrebbe) supportare le cause civili. Ma come?

Non si tratta di schierarsi apertamente per alcun soggetto debole. Spesso la cosa migliore è usare setting e ambientazioni che normalizzino il contesto sociale ideale da “promuovere”. Sarebbe il modo migliore per “educare” gli spettatori/acquirenti.

In quest’ottica, CocaCola non solo non ha sfruttato nulla, semmai ha appoggiato e sostenuto la battaglia per la parità di genere in Arabia Saudita, mostrando una nuova realtà, attualizzando cioè il fatto che da giugno 2018 le donne potranno guidare.

Questa cosa la sanno fare molto meglio di noi all’estero. Su tutti i paesi scandinavi, che da anni combattono (senza armi) per la parità di genere. Semplicemente uscendo dagli stereotipi di genere che modellano il mondo dei giocattoli, influenzando le abitudini e le aspirazioni dei bambini fin da piccolissimi.

In Svezia, ad esempio, una famosa azienda di giocattoli ha reso il suo advertising gender neutral. Non ha fatto grandi sermoni sulla parità di genere, semplicemente ha dato per scontato che anche i bambini maschi potessero giocare a dare il biberon alle bambole e che alle bambine potesse piacere sparare con un finto fucile.

Banalizzando dei messaggi che – ad esempio qui in Italia – sono ancora futuristici, se non blasfemi, si fa la gran parte del lavoro per il cambiamento dell’immaginario comune, quindi per la sua evoluzione.

La pubblicità veicola messaggi. Che voglia o non voglia. Tanto vale che veicoli quelli giusti o presunti tali.

Ben venga la donna araba che si tracanna la CocaCola. Non fa torto a nessuno, ma cambia l’immaginario della donna araba chiusa in casa a educare i figli.

L’ADV non ha e non deve avere la pretesa di salire in cattedra. Ma può veicolare immaginari “migliori” rispetto agli stereotipi sessisti o peggio ancora razziali che spesso riportano.

Se si riesce a fare pubblicità bene e in modo etico, tanto di guadagnato soprattutto per chi la fa, perché oggi i consumatori non scelgono solo il prodotto, ma anche chi lo produce!

Ma tornando a parlare di colori… CocaCola ha scelto da sempre il rosso per il proprio brand. E voi?

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Perché curare i propri contenuti web e social oggi è più importante che mai

Chiunque sia stato in un museo conosce bene la differenza tra una visita guidata e una visita “libera”. All’inizio sembra più affascinante l’idea di muoverci a nostro piacimento per tutte le stanze della collezione e liquidare velocemente quello che non ci colpisce al primo sguardo. In realtà a fine percorso spesso ci rendiamo conto di non aver imparato nulla e magari di esserci annoiati.

Lo stesso accade nel marasma dei contenuti web: avere una guida è utile. Conoscendo a menadito tutto il museo, la guida ci indica il percorso su misura per noi a seconda delle nostre curiosità. Sa raccontarci simpatici aneddoti sui pezzi della collezione e tener vivo il nostro interesse. Se è una buona guida, si intende.

Lo stesso vale per la cura dei contenuti. È fondamentale avere qualcuno che organizzi i contenuti per gli utenti. Un content editor è necessario perché l’esperienza dell’utente non sia mai noiosa ma arricchente.

Per vendere c’è il marketing e il content editing è il fertilizzante del terreno su cui il marketing pianterà i suoi semi.

Curare i propri contenuti significa:

  1. avere un piano editoriale ben definito: i lettori devono sapere cosa aspettarsi. Il blog e i canali social vanno aggiornati con cadenza periodica per creare dipendenza, se saprete fare un buon lavoro;
  2. il marketing non è mai stato solo promozione. I contenuti devono essere vari perché l’utente resti sulla tua pagina il più a lungo possibile;
  3. oggi più che mai, però, occorre creare un’identità di brand che stimoli la reazione dell’utente. Bisogna avere il coraggio di esprimere la visione del brand, limitandosi agli argomenti che riguardano il proprio ambito. Sfruttate a vostro favore le opinioni degli influencer per avvalorare le vostre posizioni;
  4. curare i propri contenuti non è un servizio dedicato solo a chi vi segue già. Usate tag e riferimenti a terzi che possano destare interesse e voglia di condividere ciò che pubblicate. Così cresce una comunità: dialogando;
  5. segui e ti seguiranno. Non è la Bibbia a dirlo, ma l’esperienza. Il miglior modo per ottenere un Like è metterlo a tua volta. Identifica gli influencer che fanno al caso tuo, quelli più in linea con la filosofia aziendale e seguili, interagisci. Potrebbe essere l’inizio di una fruttuosa collaborazione.

Curare i propri contenuti digitali oggi è fondamentale. Se riuscite a farlo in modo interessante per chi vi segue, avrete guadagnato prima la loro attenzione e poi la loro fiducia, creando un audience che rispecchia l’azienda, cioè il miglior bacino in cui fidelizzare i clienti e trovarne di nuovi.

E non dimenticatevi che i vostri follower sono i vostri fan. A loro potete proporre idee nuove e promozioni avendo un feedback prima di lanciarle sul mercato.

A proposito, sapete già di che colore è la vostra azienda?

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Zuckerberg preso a schiaffi dai suoi ex dipendenti: Facebook gli è sfuggito di mano?

Il 12 febbraio è uscita su Wired USA un’inchiesta che mette sotto accusa il colosso Facebook e in particolare la gestione degli ultimi due anni da parte del suo creatore, Zuckerberg. Oltre 60.000 battute che picchiano duro sul volto dell’inventore del social network più diffuso al mondo, tanto che la copertina del magazine rappresenta proprio Zuckerberg con il volto tumefatto.

L’articolo raccoglie una serie di interviste rilasciate da dipendenti ed ex-dipendenti della compagnia. Secondo alcuni di loro, Facebook avrebbe “toppato” negli ultimi due anni, peccando di ingenuità, nel migliore dei casi, e di faziosità nel peggiore.

Innanzitutto va ricordato che Facebook nasce nientepopodimeno che ad Harward per mettere in contatto gli studenti tra loro. Studiato quindi per uno user di altissimo profilo culturale, non poteva prevedere una diffusione tale e una così variegata amalgama di utenti. Veniva creato con lo slogan “Facebook aiuta a connetterti e rimanere in contatto con le persone della tua vita”. Queste le premesse.
I primi di noi che si sono iscritti qui in Italia, ormai una decina di anni fa, probabilmente ricordano la diversa natura del mezzo. Si accedeva al sito per scrivere “ciao” sulla bacheca di un amico in Erasmus e poco più. Man mano che gli iscritti crescevano, e con loro le potenzialità del mezzo, sicuramente le cose cambiavano. Tanto che ora ci facciamo delle grasse risate a rileggere ciò che ci ripropone l’apprezzatissima funzione “accadde oggi”.

Oggi Facebook è molto meno “buffo” e personale (non meno ridicolo a volte) ma è diventato una faccenda seria. Così seria da essere difficilmente gestibile per il giovane ex studente di Harward che fatica a comprenderne non tanto le potenzialità, quanto le ombre.
C’è chi lo vede come tutt’altro che ingenuo, il ragazzo. A me pare che la sua idea originaria fosse invece molto romantica e che con l’andare degli anni abbia perso il controllo della macchina, forse anche giustamente distratto da una vita privata che lo ha assorbito, in parte, dalla maniacale richiesta di attenzione che richiede uno strumento del genere.

I primi problemi sono iniziati quando Twitter ha preso a dare fastidio e Facebook, per sovrastarlo, ha lasciato più spazio alle news. Ma Facebook non è Twitter. Privato e pubblico, oggettivo e soggettivo si mischiano vorticosamente, facendo venire nausea e confusione a chiunque. Zuckerberg allora costituisce una squadra per gestire i trending topic, perché non siano governati solo da un algoritmo ma “guidati” da giornalisti veri. Risultato: viene accusato di favorire le notizie pro-democratici e, da buon idealista qual è, questa cosa lo fa incazzare.

In effetti il ragazzo è uno che tiene alla parità dei diritti uomo/donna, che promuove la pace e combatte le differenze. Uno così non avrebbe certo votato Donald Trump.
Eppure pare proprio che sia vero il contrario, che Facebook abbia giocato un ruolo chiave (e inconsapevole) nell’ascesa del tycoon al potere, grazie alle numerose fake news che hanno invaso Facebook durante la campagna elettorale americana, sfavorendo la concorrente Hillary Clinton.
Immaginatevi come potesse reagire un ragazzo poco più che trentenne, accusato di aver cambiato le sorti del Paese e forse del mondo. Ha certamente avuto paura.
Così paura che voleva lavarsene le mani. “Se gli editori vogliono andarsene da Facebook, che se ne vadano”, ha più volte dichiarato. Ma poi ha inserito sulla piattaforma USA il primo strumento di fact-checking. Insomma non sapeva più che pesci pigliare.

Nel 2018 la grande rivoluzione: il cambio di algoritmo… un ritorno al passato, lo ha chiamato. Siamo tornati al romanticismo harwardiano del Zuckerberg ventenne. Io ci credo che voglia tornare ai bacini in bacheca mandati ai cugini in argentina. “Vogliamo assicurarci che i nostri prodotti non siano solo divertenti, ma buoni per la gente”. Più qualità, più amore cosmico e magari meno condanne morali e responsabilità. Nonostante la diffidenza dei mercati, nonostante il rischio di perdita di investitori. Mark va avanti come un treno, come sempre. Speriamo un briciolo più consapevolmente, questa volta, del potere della macchina che pilota.

Se poi per una volta preferisce la qualità alla quantità, non possiamo biasimarlo, è quello che cerchiamo di fare anche noi. Nel lavoro, come nei social.

PS: spero che Mark intervenga sulla sua piattaforma prima che il Governo Federale lo faccia a tutela della famosa “sicurezza nazionale”. L’analisi di Wired US è implacabile nell’evidenziare come Facebook, se usato al meglio delle potenzialità (community aggregator & news feeder), oggi sia lo strumento perfetto per piegare la realtà e mettere a repentaglio alcune basi della democrazia moderna come noi la conosciamo. L’alert da parte dei Servizi Segreti italiani sulle prossime elezioni non sono quindi solo una boutade. Se sai usare bene Facebook, riesci a farti eleggere o a non far eleggere il tuo avversario?

Qui l’articolo originale

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Netflix creepy? Potrebbe andare peggio, potrebbe twittare Pornhub!

Netflix ha tirato le somme dell’anno appena passato… e lo ha fatto a suo modo. Il team comunicazione dell’azienda californiana si è sempre distinto per la sua brillantezza e simpatia, ma questa volta ha aggiunto anche un pizzico di sarcasmo saccente al mix di ingredienti.

In un tweet dall’account Netflix US, l’azienda ha ironizzato sulle 53 persone che hanno guardato “A Christmas Prince” ogni giorno negli ultimi 18 giorni. “Who hurt you?” chiede Netflix agli spettatori compulsivi del film natalizio. E il pubblico in parte si indegna, in parte risponde di battuta in battuta.

Perché l’indignazione?

Come se non fosse ovvio che Netflix collezioni informazioni sugli utenti. È proprio il meccanismo di base che consente alla piattaforma di streaming di proporre una libreria ad hoc per ogni utente, basata sui suoi gusti, su ciò che ha già visto e che Netflix ovviamente conosce.

Di fatto moltissime aziende utilizzano big data e analytics per le loro campagne di marketing, o per migliorare i servizi. Solo che noi non ne siamo coscienti – e dovremmo, perché le privacy policy sono (quasi) sempre chiaramente espresse dalle aziende – eppure non ce ne rendiamo conto e ci stupiamo. Netflix ha usato i dati non solo per personalizzare il servizio di streaming ma, in questo caso, anche per il social media marketing. Possiamo dire che sia stata più trasparente di altre compagnie, al massimo, ma non meno rispettosa della privacy. Non ha fatto alcun nome o rivelato alcuna informazione sensibile che fosse riconducibile a qualcuno di specifico. In compenso è riuscita a chiamare in ballo i propri utenti in maniera ironica e forse un po’ provocatoria, cosa che non tutti hanno apprezzato, definendo Netflix addirittura creepy. Che sia stata ortodossa o meno, la gestione dell’account twitter di Netflix ha certamente creato un piccolo caso mediatico intorno alla vicenda e, trattandosi di marketing, si può dire che l’esperimento sia riuscito, dunque.

Anche un altro brand di successo ragiona con meccanismi simili ed è Spotify, che ha da poco avviato una campagna ads proprio basata su dati raccolti riguardo ai gusti musicali dei propri utenti.

Il concetto è molto simile a quello sfruttato da Netflix, eppure nessuno ha alzato la voce contro la piattaforma musicale più famosa del mondo. Perché ce la siamo presa tanto con Netflix? Perché ha messo in ridicolo lo spirito natalizio? Perché ci siamo sentiti chiamati in causa come se ci avessero preso in giro per le decine di volte che abbiamo visto “Mamma ho perso l’aereo”? O forse per pigrizia: è più facile replicare a un tweet che a un cartellone.

Alla fine l’utente più illuminato di tutta questa polemica è PitchforksAtTheGate, che risponde così: “Could be worse. @Porhub could be tweeting…”

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Marketing Automation? Sì, ma fatta bene

Oggi voglio spiegarvi cos’è la Marketing Automation per me e a cosa serva all’atto pratico. In poche parole, il termine Marketing Automation indica l’utilizzo di software che servono ad automatizzare specifiche attività di marketing. Lo scopo è snellire e migliorare il nostro modo di acquisire nuovi clienti in modo automatico.

Cosa rappresenta per me la Marketing Automation?

Questo strumento mi permette innanzitutto di implementare l’efficacia di ogni strategia programmata ottimizzando le tempistiche, poiché l’attuazione è veloce senza compromettere l’autenticità dei contenuti, che restano quelli prodotti dalla mia azienda.

Inoltre, è un aiuto concreto nel raggiungimento dei miei obiettivi di business.

La Marketing Automation permette di incrementare le entrate della mia azienda e quelle dei miei clienti guidando il traffico verso il rispettivo sito web, acquisendo nuovi contatti che quindi diventano potenziali clienti.

Il centro di questa strategia è proprio la conversione di contatti in clienti. Per noi, professionisti del settore, è fondamentale imparare a usare bene questi strumenti perché ogni errore inciderà direttamente sulla nostra immagine o, peggio ancora, su quella dei nostri clienti. E, detto tra noi: chi ha davvero voglia di passare al telefono mattinate intere ad ascoltare le lamentele di un cliente e interi pomeriggi a risolvere tutto?

A tal proposito ho pensato che, condividendo alcuni consigli basati sulle mie esperienze professionali, avrei potuto fornire linee guida importanti.

Noi abbiamo provato sui nostri clienti alcune attività di automation e vi posso assicurare che ci sono stati risultati incredibili. A una condizione, però: che il traffico sia gestito in maniera adeguata altrimenti, anziché tanti potenziali clienti, otterremo solo persone insoddisfatte!

Il primo consiglio è di non intraprendere strategie di automatizzazione senza aver prima ridefinito i vostri obiettivi. I nostri propositi possono e devono variare a seconda della strategia che decidiamo di usare. Questi strumenti non devono condurci a strategie che non porteranno benefici ai nostri clienti. Dobbiamo avere sempre ben chiare le loro richieste.

Un altro suggerimento è di integrare alle strategie di Automation Marketing quelle di Inbound Marketing. Bisogna continuare a fornire contenuti utili e interessanti anche quando si usa un software per l’automatizzazione.

Infine, lasciate perdere i messaggi generici: sono fastidiosi e inutili. Se volete buoni contenuti, fateli scrivere a chi lo fa di mestiere: affidatevi a un copywriter. Lui saprà raggiungere il target che i vostri clienti vogliono catturare. Saprà cosa dire e come dirlo.

L’ultimo consiglio riguarda proprio la relazione con i vostri clienti. Prendetevi cura di loro. Letteralmente. Ascoltateli per ore, giorni e anche mesi, se necessario. Rispettate i loro desideri e indirizzateli verso le scelte più convenienti. Incoraggiateli con il vostro lavoro e fate in modo di diventare tanto indispensabili da spingerli a chiedere il vostro aiuto anche in futuro.

Avete bisogno di un team di esperti? Noi lo siamo e sapremo guidarvi verso la strategia più adatta per il vostro brand.

La nostra professionalità è al vostro servizio e la nostra pazienza infinita.

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Tu vuo fa l’americano, ma anche no!

Black Friday, Best Price, Brand, Fee, Concept, Brand Essence, Copywriter, Testimonials, ecc. Il mondo della pubblicità è infarcito di inglese. Giusto o sbagliato? Come avrete capito se vi è già capitato di leggere i miei articoli… dipende!

L’inglese è una bomba: chiaro, conciso, comunicativamente efficace. Ma sappiamo dove fermarci?

Ragioniamo sulla lingua e i suoi significati correlati. L’inglese è la lingua più associata alla tecnologia per ovvie ragioni: la Silicon Valley e tutto il know how made in USA. Da quando esistono i PC insomma… e come volevamo chiamarli, calcolatori personali? Davvero?

Un’ondata troppo ricca di oggetti e concetti nuovi perché le varie lingue – non solo quella italiana – producessero i relativi termini facendoli diventare di uso comune. Inoltre, gli oggetti un tempo riservati all’ambito lavorativo oggi sono diventati device alla portata di tutti, bambini compresi.

Ok, quindi passino termini come mouse, personal computer, smartphone, wireless etc., arrivati prima che fosse possibile contrastarli e assolutamente funzionali al proprio utilizzo.

Ma non sempre è utile abusare della lingua anglosassone. Ad esempio, come vi suona l’Italian Bakery vicino a Porta Venezia a Milano? Diciamolo: un po’ stona. Soprattutto se consideriamo che, in fatto di cibo, l’italiano è la lingua più diffusa per dare lustro e riconoscibilità alle attività che si occupano di ristorazione.

Quanti Peppino, Gennaro, Pizza & Pasta, avete visto nei vostri viaggi all’estero? Questo significa che un idioma porta con sé la sua cultura di riferimento, le sue caratteristiche più forti. La lingua italiana può solo essere di supporto alla causa del buon cibo.

Nonostante il concetto di slow-food volesse contrapporsi all’emulazione USA delle grandi catene dove il cibo è solo consumo, lo ha fatto mutuando un termine della lingua da cui avrebbe dovuto discostarsi. In quel caso, però, il gioco provocatorio basato sugli opposti slow/fast reggeva e vinceva l’incoerenza della scelta.

Ma i veri vincitori della guerra tra hamburger sono stati i fondatori dell’azienda piemontese Mac Bun, una agrihamburgeria che serve carne di Fassone di prima qualità. Il nome in piemontese significa “solo buono” ma, per la sua assonanza con la catena di fast food americana, ha subito addirittura una diffida da Mc Donald’s e ha dovuto così autocensurarsi in M** Bun. Ma ormai la macchina del marketing era bella che avviata e la minaccia del pagliaccio giallo non ha fatto altro che accrescere la fama dei ristoranti M** Bun.

Quindi se Italiano sta a cibo, ed è altrettanto assodata l’equazione Inglese/tecnologia, credo si possa giustificare anche quella Inglese/pubblicità. Gli USA sono i consumatori e produttori per eccellenza di advertising e ne hanno da insegnare a tutto il mondo. Va bene allora mutuare concetti che abbiamo appreso decenni dopo di loro, come quelli con cui ho aperto questo articolo. Va bene anche perché strizzano l’occhio al cliente e danno l’aria di conoscere i misteriosi meccanismi del marketing, e in effetti è proprio così.

Tutti gli ambiti tecnici hanno i loro linguaggi specifici, spesso orientati verso l’una o l’altra lingua. Così come i termini medici e scientifici trovano origine ed etimologia nel latino e nel greco, così fenomeni e attività più recenti si accostano più naturalmente all’inglese. Niente di male.

Ma attenzione: non lasciamo che in ogni ambito la comunicazione si appiattisca sull’inglese. Sarebbe fuorviante e talvolta ridicolo, macchiettistico, come l’Italian Bakery di Milano.

E soprattutto non abbiamo la pretesa di conoscere l’inglese perché appiccichiamo qua e là alcuni termini all’interno del nostro discorso. Ricordiamoci con umiltà che la lingua non è fatta solo di termini, ma anche di regole grammaticali e sintattiche. Ma aggiungere una “s” a un termine inglese per farne il plurale non ci rende più british, ma solo più ignoranti.

Ancora una volta la risposta alla domanda iniziale, in questo caso English or not?, è sì, ma attenzione. Sapere l’Inglese è cosa diversa da sfruttarne i termini solo per parlare di marketing e adv o per produrne i contenuti. Ma questa è ancora un’altra storia.

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I tuoi giorni migliori non sono in vendita

La nostalgia, lo abbiamo letto ovunque, è letteralmente “il dolore del ritorno”.  Non un dolore lacerante, ma quella piacevole sensazione che ti contorce lo stomaco quando un volto che non fa più parte della tua vita ti torna in mente di sorpresa. Ti incanti fissando il vuoto, ti culli in un ricordo.

Perché tutte le persone che non ci sono più, tutte le storie finite e tutte le cose che non possiamo più avere, le ricordiamo più belle, più rosee di come non fossero in realtà? A rispondere è la psicologia, si tratta di un errore cognitivo definito retrospettiva rosea.

Il marketing della nostalgia sfrutta proprio questo inganno della mente per colpire il consumatore proponendo una grafica vintage, reinventando prodotti già in commercio da decenni o addirittura riproponendo beni precedentemente ritirati dal mercato.

Il marketing della nostalgia è così efficace che sono gli stessi consumatori a farlo. Così dimostra la vicenda Winner Taco. Il gelato rivestito di cialda e cioccolato fece il suo debutto sul mercato italiano nel lontano 1998 e in realtà durò solo pochi anni. Dopo un silenzio di oltre 10 anni i suoi fan hanno iniziato una vera e propria campagna di protesta per ottenere il ritorno dell’Orso Bianco. A suon di troll e meme che hanno invaso le pagine di Algida e dei maggiori prodotti di punta del brand, i fedelissimi del Taco sono riusciti nel loro intento: nel 2014 il Winner Taco è tornato ad allietare le estati italiane, facendo felici i nostalgici che hanno da allora potuto rimpiangere altri oggetti di culto.

Tutte le grandi aziende sono cadute nella tentazione del marketing nostalgico. A partire da Coca-cola, che ha celebrato con una massiccia campagna comunicativa un secolo di storia della iconica bottiglietta in vetro, festeggiato il 16 novembre 2015. Lo ha fatto anche l’industria cinematografica tirando fuori dal cilindro il sequel di film che hanno segnato un’epoca come Trainspotting o It. Anche Fiat ha dato il suo contributo per riportare il mondo un passo indietro. Ha rispolverato prima la gloriosa Fiat 500 e recentemente la 124 Spider, un’icona di spensieratezza e aria tra i capelli. Sembra che tutto il mercato remi all’indietro.

La nostalgia, il ricordo delle cose passate – come suggerisce William Shakespeare – è l’unica àncora fissa a cui appigliarsi nell’epoca delle incertezze.

Il marketing della nostalgia non solo funziona, ma è anche redditizio. Ha un target preciso: gli odierni quarantenni. Persone che solitamente hanno un potere di acquisto superiore ai giovanissimi poiché godono di un impiego fisso trovato prima che la crisi esplodesse con tutta la sua forza. Non è solo una questione di disponibilità economica, ma di impostazione mentale. Chi è stato giovane negli 80s è per natura più propenso a spendere, che i soldi ci siano o no. Cosa non si fa per un pezzo di cuore. Per battere i figli a Super Mario Bros sul Nintendo 64.

Potete comprarvi un vinile degli Smiths, parlare al telefono con il 3310 e scattarvi una bella polaroid di gruppo. Quel che noterete però è che non sarà mai bello come allora. E poi vuoi mettere i selfie con l’IPhone?

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Come e perché attuare una campagna di marketing sms

Sappiamo già che la gestione di un business non si ferma alla fidelizzazione dei clienti già acquisiti ma spesso punta ad acquisirne altri. Eppure, in un contesto frenetico come quello attuale, è sempre più difficile ritagliarsi del tempo per ideare e sviluppare un’attività di marketing efficace. Inoltre, anche il pubblico a cui ci si rivolge rischia di essere troppo distratto perché le campagne di marketing abbiano davvero un senso.

In seguito a quanto ho appreso in un Webinar di 4DEM, nostro partner usuale nel direct marketing, vi spiego perché spesso è meglio basarsi su una campagna sms piuttosto che su una campagna email.

Gli sms rappresentano un canale privilegiato – più del 95% degli italiani possiede un cellulare, nella maggior parte dei casi uno smartphone. Il tasso di apertura di un sms è del 97% e la sua efficacia è massima, soprattutto se rapportato a un’email.

Quando una campagna non è troppo insistente, per di più, gli utenti sono ben disposti nei confronti di offerte e promozioni arrivate tramite sms, essendo immediati e, passatemi il termine, facili. Inoltre, il canale sms si presta a un’ampia varietà di prodotti e mercati fino a coprirne quasi la totalità.

Di seguito vediamo quando utilizzare una campagna marketing sms e come massimizzarne l’efficacia.

Come detto in precedenza, gli sms sono immediati. Essendo immediata anche la fruizione, è consigliabile, soprattutto nel caso di promozioni flash, avviare la campagna il giorno o la sera precedenti a quello della promozione stessa. Il tutto finalizzato a massimizzare l’interesse del cliente, grazie anche all’imminenza dell’offerta.

Altri casi in cui è consigliabile utilizzare una campagna sms sono la promozione di eventi – con qualche giorno di anticipo e un promemoria a poche ore dall’inizio – e la necessità di ricordare scadenze o appuntamenti.

Affinché una campagna sms sia davvero efficace è necessario essere chiari e concisi. Less is more, e non a caso: stiamo prediligendo l’immediatezza, quindi non possiamo farla scadere in un messaggio lungo e contorto.

Altra caratteristica fondamentale è la riconoscibilità: optare, quindi, per una campagna in cui gli sms abbiano un mittente definito – evitando di essere i classici “no-reply”.

Di vitale importanza, all’interno di una campagna sms, è poi la Call To Action, che non può e non dev’essere fraintendibile: un link che conduca al sito o a una landing page, e una richiesta chiara e accattivante per il potenziale cliente.

Non esiste, per concludere, un momento giusto o sbagliato per inviare una campagna sms. Tuttavia, è meglio affidarsi sempre al buon senso: niente campagne prima delle 9 del mattino, né oltre le 21.

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Com’è andato l’e-commerce nel 2017? Bene, ma non benissimo (in Italia)

Più le nostre vite si fanno frenetiche e imprevedibili, più il settore e-commerce cresce e supplisce alle limitazioni dei negozi fisici. A dispetto di supermercati e ipermercati aperti sempre e comunque, la comodità di ordinare con un click vince, consentendo di scegliere tra milioni di prodotti differenti.

Consultando diversi report sull’argomento, risulta che siano 1,6 miliardi gli utenti in tutto il mondo che hanno acquistato prodotti on line, per una spesa di quasi 2 trilioni di dollari. Impressionante, eh?

I mercati più vivi, neanche a dirlo, sono quelli che possono permettersi di spendere (tendenza che caratterizza anche la vita reale!): Cina e Stati Uniti innanzitutto e, per quanto riguarda l’Europa, in testa c’è la Germania.

In Italia, si sa, siamo restii ai cambiamenti, ma Amazon è entrato nel cuore di molti di noi.

Come per il resto del mondo, i settori trainanti sono turismo e tempo libero (Airbnb, TicketOne, etc.); mentre ad aumentare il proprio giro d’affari negli ultimi mesi sono i settori di salute, bellezza e alimentari. Quest’ultimo dato stupisce in un Paese come il nostro, dove il cibo non è solo nutrimento ma un vero e proprio piacere. Tradizionalmente, anche fare la spesa è un momento a cui dedicare tempo e dedizione, per scegliere i prodotti migliori per qualità e prezzo. Oggi cambia anche questa abitudine, lentamente. Pensiamo a chi non ha un’auto a disposizione, a chi è anziano o vive fuori città, lontano da tutto. Oggi le principali catene di supermercati offrono un servizio di delivery rapido ed efficace con consegne stabilite nell’orario preferito dal cliente. Comodo, eh? Niente più casse di acqua faticosamente trascinate dalla macchina a casa o su per le scale!

Per non parlare della fortuna di Just-eat e Foodora che, grazie ai loro fattorini su due ruote, riescono a fornire nelle grandi città un servizio che i clienti (da studenti a imprenditori) sembrano apprezzare parecchio (mentre insorgono i sindacati per le paghe da fame dei giovani fattorini).

E il B2B?

L’ambito del business to business ha certamente regole del gioco diverse e di conseguenza lo stesso vale per il relativo e-commerce.

Se in ambito B2C, “la vendita” è un processo che può essere rapidissimo e logisticamente più semplice, quando si vende alle aziende invece di solito si parla di grossi quantitativi e di acquisti che vanno curati con maggiore attenzione da parte del cliente/azienda.

Diventa fondamentale, quindi, inserire ad esempio l’opportunità di fornire un preventivo al possibile acquirente, in modo che l’azienda possa valutare se procedere all’acquisto.

Imprescindibile è anche un’ottima gestione delle transizioni di denaro, che spesso riguardano grosse cifre, e la cui gestione deve rimandare un’idea (e una sostanza) di sicurezza e tutela dei dati, oltre a offrire l’opportunità di rateizzare l’intero l’importo.

Anche la natura del rapporto tra venditore e acquirente dev’essere gestita diversamente in ambito B2B. A differenza del B2C, infatti, i clienti sono di solito abituali, quindi diventa necessario curare particolarmente il customer service e la user experience, che dev’essere personalizzata e impeccabile. L’azienda acquirente deve sentire che dietro al “sistema e-commerce” ci sono persone fisiche che conoscono le loro esigenze e il loro business.

Ah, a proposito. L’altro giorno ero in una famosissima catena di elettronica di livello mondiale e dovevo comprare un Hard Disk da 1Tb per fare il backup di tutti i contenuti del mio pc di casa e ovviamente date le feste “il prodotto non era disponibile”. Mentre uscivo dal negozio abbastanza contrariato, sono entrato su Amazon e ho trovato lo stesso prodotto a 5 euro in meno e il giorno dopo me l’hanno portato direttamente a casa.

Bisogna dirlo: l’e-commerce se fatto bene è tutta un’altra cosa!

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Zuckerberg cambia algoritmo e le aziende tremano

Facebook privilegerà gli amici alle pagine e sarà la rivincita del marketing emozionale.

Lo ha annunciato proprio Mark Zuckerberg sul suo profilo FB: l’algoritmo del social network più famoso e diffuso al mondo sta per cambiare.

Come?
I social media manager di tutto il mondo già tremano. Pare infatti che il fondatore di Facebook auspichi un “ritorno al passato”, un passato recente, si intende. Quello in cui si usava il social solo per l’interazione tra utenti e non per la condivisione di contenuti pubblicitari o di informazione.

Quando Facebook è sbarcato in Italia, cioè circa una quindicina di anni fa, le persone non conoscevano ancora le potenzialità dello strumento. Lo si utilizzava per mantenere i contatti con amici conosciuti in vacanza o parenti lontani, per sentirli vicini. Ora la sua natura è molto diversa, così come la sua potenza, la sua capacità di veicolare informazioni, giuste o scorrette che siano, e di raccogliere informazioni sugli utenti.

Una nobile intenzione?
Sembra che il papà di Facebook voglia restituire alla sua creatura quelle nobili intenzioni che negli anni ha smarrito, almeno in parte.

Quindi il nuovo algoritmo favorirà i post degli amici piuttosto che delle pagine. Meno news e contenuti di marketing a favore di foto private, contenuti intimi e personali.

Ma attenzione. Ci sarà ancora spazio per le pagine, purché godano di una buona interazione con il pubblico. Uno degli obiettivi del rinnovamento, infatti, è ottenere un social network sempre più attivo e frenare la fruizione passiva dei contenuti delle pagine, sponsorizzati o meno.

Chi sopravviverà quindi a questa ecatombe?
Difficile dirlo. Sicuramente chi ha puntato sul consolidamento del rapporto con gli utenti e di una connessione empatica è un passo avanti agli altri. Al contrario, chi si è limitato a sponsorizzare post spiccatamente commerciali o a usare la propria pagina come si usa la vetrina di un negozio, avrà molte difficoltà a cambiare rotta velocemente. Coloro che sembrano trarre vantaggio da questo cambio di rotta sono le personalità che sfruttano la propria riconoscibilità per fare business. Penso a tutti quei lavoratori che vendono se stessi come liberi professionisti e hanno un buon seguito sui social network, sfruttando proprio il profilo personale. I cosiddetti influencer che hanno centinaia di like e condivisioni saranno privilegiati dal nuovo algoritmo, poiché non immediatamente bollati come “brand”.

In realtà la logica premiante per le interazione varrà anche per le stesse pagine aziendali. Per questo sarà il momento di raccogliere ciò che si è seminato con il marketing emozionale e la filosofia “Ceres”, per intenderci.

Si tratterà di un’epica rivincita su chi bollava come inutili le campagne social non finalizzate direttamente alla vendita, ma piuttosto alla creazione di una community, di un legame con l’utente e possibile cliente. Una logica che adesso probabilmente darà i suoi frutti.

Questa innovazione, quindi, potrebbe rendere quasi tutti contenti:

  • gli utenti, che vedranno sul proprio newsfeed solo post a cui sono davvero interessati o che reputano coinvolgenti in qualche modo;
  • le aziende e le agenzie di comunicazione, che da tempo hanno capito che Facebook non è un canale di vendita diretto ma un luogo dove acquisire la credibilità e la simpatia di chi è o potrebbe diventare cliente, scegliendo te su un competitor al momento dell’acquisto.

Unici scontenti? I fanatici del marketing duro e crudo, generico e senza stile o profilazione. Chi non ha ancora capito che mostrare la merce non basta più: questa è l’epoca dello storytelling aziendale.

Voi lo avevate già capito?