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Self scan check-out: ecco cosa non ha funzionato

Quando la tecnologia anticipa il marketing, il rischio è quello di arrivare sul mercato impreparati. Esattamente cosa è successo con la SCO nella grande distribuzione.

Non so voi, ma io quando vado al supermercato, quelle rare volte, ho il terrore. Riesco ad andare chiaramente solo il sabato pomeriggio o all’uscita dall’ufficio, insomma il classico orario in cui le corsie sono strapiene, figuriamoci le casse. Fortunatamente la tecnologia ci viene incontro e molte catene hanno introdotto la tecnologia SCO, cioè self scan and check-out. Per intenderci le casse automatiche, oppure, ancora meglio, il terminale per scannerizzare la merce man mano che viene introdotta nel carrello; così a fine spesa non rimane che pagare e correre a casa per cena. Si, ma. Io, per esempio, vivo la spesa con l’ansia. Sistemo il mio terminale al carrello, scannerizzo con attenzione tutto, sbaglio, allora tolgo, attendo la risposta del terminale che a volte è decisamente poco agile, riprendo la mia gita tra le corsie. Poi arrivo al momento di pagare e….tac. Scatta il controllo carrello. E anche lì, sudo. Non che io sia una dedita ai furtarelli per carità, ma è praticamente impossibile che non si verifichi qualche incongruenza, magari hai passato 8 confezioni di pasta e non 9, per una banale distrazione. E poi son lì che metto la roba sul nastro e penso, “Ma che diavolo lo mettono a fare il terminale SCO se poi controllano quasi ogni carrello?”.

Con questa domanda in cima al carrello della spesa torno a casa, mi informo un po’ e svelo l’arcano. Questa tecnologia di self check-out non sta dando i frutti sperati, non ancora almeno. A detta della ricerca Self-Checkout in Retail: Measuring the Loss condotta da ECR Community Shrinkage and On – Shelf Availability Group, supportata da Checkpoint Systems,  risulta che i punti vendita dove il 55-60% di transazioni avvengono tramite tecnologie SCO registrano il 31% in più di differenze inventariali. Cifre non da poco! E non si tratta sempre di errori di distrazione. Ovviamente c’è anche un briciolo di malizia in qualche avventore che spera di farla franca. In realtà i controlli ci sono e sono massicci. L’altro giorno mi trovavo, appunto, in un punto vendita di una grossa catena di supermercati e di fronte ad un’anziana coppia indispettita per il controllo del carrello, la cassiera spiegava: “se fate la spesa solo una volta al mese con il sistema SCO, la prassi è il controllo del carrello”. Allora mi sono chiesta a cosa serva tutta questa automazione se alla fine della fiera i controlli avvengono su un’altissima percentuale di carrelli. E il risultato? Perdite dovute a furti, distrazioni e quant’altro. Insomma, non un grande affare sembrerebbe!

Eppure l’automazione nel campo della GDO potrebbe essere un ottimo investimento. Il tempo è prezioso, lo sappiamo bene. Cosa non ha funzionato allora? Probabilmente la tecnologia è arrivata prima del marketing e della pianificazione strategica. Corre veloce la tecnologia, ma se usata o gettata sul terreno sbagliato e non adeguatamente pronto ad accoglierne il seme, non solo può essere poco produttiva, ma addirittura dannosa.
Quello che serve è una buona campagna informativa sulle possibilità esistenti, in modo che i clienti possano sfruttarle al meglio, ma anche una buona educazione per un utilizzo corretto dei terminali di self check-out. Infine anche dal punto di vista tecnologico, non siamo ancora arrivati, strada da fare ce n’è. I terminali hanno software spesso lenti, che stufano o che facilitano la “dimenticanza” nello scannerizzare un articolo, le batterie a volte non sono adeguate. Tipo, scannerizzi circa 120 articoli, ti dirigi fiero verso la cassa automatica per pagare tutto quel ben di dio e… il terminale si spegne. Batteria scarica. Tutto da rifare. E ti avvii tristemente verso l’infinita coda dell’unica cassa aperta, dove ad aspettarti alla fine dell’interminabile attesa ci sarà una cassiera esausta che non va in bagno da circa 8 ore. Insomma, la prossima volta la spesa la farei online.

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Linkedin resiste ma fun is bigger than job!

Linkedin resiste, cresce e si concretizza, eppure fun is bigger than job!

Linkedin lo scorso anno ha compiuto ben 15 anni, eppure se la cava bene, almeno stando ai numeri: conta oggi oltre 500 milioni di iscritti nel mondo. Niente male per un social network che non ha la pretesa di intrattenere in senso stretto, quanto di creare relazioni lavorative fruttuose e in generale allargare la propria rete di contatti business.


Nonostante tutto l’intrattenimento sembra valere di più,

Tutti sappiamo che se non siete iscritti a Facebook non avrete la possibilità di accedere ad alcun contenuto all’interno di esso. L’obiettivo del social più famoso del mondo è, infatti, farti iscrivere ad ogni costo. E una volta che ci sei dentro, ti si apre un mondo, non solo quello che vedi attraverso la tua bacheca e che in fin dei conti è poco più di un riflesso artificiale dei tuoi interessi e delle persone che frequenti, ma anche tutti quei luoghi che si schiudono grazie al login semplificato che puoi utilizzare in una miriade di luoghi nel web, utilizzando le credenziali di Facebook.

Per Linkedin il discorso dovrebbe essere lo stesso. Se Facebook è l’arena del divertimento e della sfera privata, Linkedin dovrebbe essere il social business per eccellenza ma… ma ormai da parecchie settimane Linkedin permette il social login attraverso Facebook. Cioè? Ti permette quindi di creare un account per accedere al mondo Linkedin passando attraverso il tuo profilo di Facebook. Può sembrare un banale scambio di favori tra lo stesso tipo di cliente che opera in due sfere differenti ma questo non è il caso. Facebook non ti permette di accedere al suo mondo di divertimento attraverso il login di Linkedin.

 

Particolare non banale, se ti iscrivi a Linkedin passato dal re dei social per intrattenimento, puoi piombare nel bel mezzo del salotto dedicato agli affari, con un profilo che porta con sé molte informazioni personali, fotografie con amici, attimi di relax, vacanze, fotografie di gattini, piedi al mare, viaggi, apericene, piatti da mangiare piuttosto che informazioni utili a delineare la tua professionalità.

Alla fine nonostante tutto, nonostante tutte le news sullo stato di grave salute del più grande social del mondo, oggi Facebook non è assolutamente pronto a lasciare il proprio scettro di monopolista assoluto nel mondo dei social. Non c’è scampo, non vi salverà essere iscritti a Linkedin, al sito delle agenzie delle entrate o all’anagrafe. Quello che vuole Facebook da te è l’esclusività del tuo profilo, sfoggiando un atteggiamento spavaldo e sicuro di sé, convinto com’è che prima o poi tutti si sentiranno sbagliati nel non esserci e nel non poter visitare la pagina della pizzeria in cui vogliono mangiare e che non ha un dannato sito internet. Prima o poi tutti ci cascheranno, pensano e forse hanno tristemente ragione loro.

Mentre Linkedin, nonostante si parli di cose più serie come lavoro e affari, questo “ricatto” non può ancora, e forse non potrà mai, permetterselo. Perché fun is bigger than job. (ed è pure più furbo). Non c’è modo migliore che attrarre business con un like, stuzzicando la curiosità, in modo leggero.

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La PA e l’app IO

La Pubblica Amministrazione prova a sbarcare su Mobile con l’app IO

Team per la trasformazione digitale. Che nome altisonante hanno dato a questo gruppo di tecnici IT con una missione nobile e ben precisa: creare il Sistema Operativo del paese, mettendo in comunicazione Imprese, cittadini e Pubblica Amministrazione da mobile con una grande app dedicata che si chiamerà IO

Quando si parla dell’Italia, oltre al sole e al buon cibo, si pensa, alla disorganizzazione e alla lentezza della burocrazia italiana. A Milano però sono un passo avanti, si sa. In questi mesi parte la sperimentazione di IO, l’app dedicata ai servizi della Pubblica Amministrazione, disponibile, per ora, per i cittadini della city lombarda.

Novità sicuramente interessante per i cittadini. Grazie alle credenziali del Sistema Pubblico di Identità Digitale (SPID) si può accedere comodamente da smartphone a una serie di servizi e informazioni che altrimenti costerebbero ai cittadini ore di attesa non sempre proficue.  Ma ancora più interessante è la svolta per i sistemi di pagamento online, primo tra tutti Satispay, metodo scelto come opzione effettuare le piccole transazioni attraverso l’app. Se la sperimentazione dovesse dare esiti positivi e l’app espandersi a macchia d’olio sulla Penisola, chiaramente gli utenti Satispay, già in costante crescita, dilagherebbero.

 

Ma non siamo sicuri del successo del Team. L’Italia ha un grosso problema di sfiducia nel sistema, ancor di più se si tratta di tecnologia. Il nostro paese è al di sotto della media europea per quanto riguarda la diffusione dei pagamenti cashless, sia online che da smartphone. Se da un lato il timore è eccessivo, dall’altro trova leva nella scarsa alfabetizzazione informatica e nell’inadeguatezza dei sistemi di privacy a protezione dell’utilizzatore di talune app e servizi. In effetti, se ci pensate, grazie a quest’app ci porteremmo in tasca dentro al nostro smartphone, non solo alla nostra situazione finanziaria, ma insieme ad essa la nostra cartella clinica generale, lo storico dei nostri rapporti con la Sanità pubblica e in generale una miriade di informazioni molto sensibili, tutte accessibile con un solo profilo utente. C’è quindi da sperare (e da convincere la cittadinanza) che gli standard di sicurezza siano adeguati, quindi altissimi per l’app che si chiamerà appunto IO. Io perché lì dentro c’è un po’ tutto di noi, in effetti.

Il messaggio dalle istituzioni però è positivo. Sarebbe cosa buona e giusta progredire con l’educazione su più fronti. Insegnare alla cittadinanza quanto è importante, ad esempio, avere sotto controllo la propria situazione tributaria per non incorrere in sanzioni inutili causate da distrazioni o vizi burocratici o quanto sia utile conoscere e consultare in maniera rapida e funzionale tutte le agevolazioni fiscali, i contributi pubblici o gli incentivi che spesso sono sconosciuti da chi potrebbe averne accesso! L’informazione, insomma, dovrebbe arrivare prima delle lamentele per la scarsa politica di welfare italiana. Uno dei più grandi problemi del sistema assistenziale italiano, non sono gli scarsi investimenti, ma gli investimenti inutili oppure poco pubblicizzati e quindi poco fruttuosi per i cittadini e di ritorno poco fruttuosi per lo stato stesso che appare poco generoso!

Si potrebbe dire che lo stato abbia bisogno di una comunicazione più efficace, ma partiamo dagli strumenti. IO sembra essere la direzione giusta, se tutto andrà bene, il lavoro di comunicazione ed educazione all’uso dovrà essere molto massiccio! Facile vederlo funzionare bene a Milano, sfidiamo a IO a ottenere gli stessi risultati nelle campagna della maremma!

 

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Trenitalia e loyalty program: scivola sull’8 marzo

In questi giorni è sulle bacheche di tutti la gaffe di Trenitalia in occasione dell’8 marzo. L’iniziativa in questione prevede un gentile omaggio per le signore che consiste in una caramella al limone. Una caramella al limone. E non per tutte le viaggiatrici ma solo per le fortunate che viaggiano in executive o consumano un pasto presso il vagone ristorante, salvo esaurimento scorte. Insomma non un grande affare e certamente non una gran figura.

Come mai?

Partiamo dal presupposto che il tasto è dolente e per toccarlo Trenitalia avrebbe dovuto prepararsi meglio. L’8 marzo è una ricorrenza molto sentita e soprattutto oggi, sull’onda dei vari movimenti di rivendicazioni femminista di massa come il Metoo o Non una di meno. C’è da aspettarsi che qualsiasi iniziativa che riguardi questa giornata sia al vaglio delle stesse associazioni femministe.

La critica è quindi politica e sociale. Caramelle regalata solo a chi spende di più, alle altre non è concesso l’omaggio che celebra il loro essere donne.

Ma noi vogliamo analizzare un ulteriore aspetto della vicenda ed è il flop a livello di reputation e marketing. Vediamo insieme quando si utilizzano omaggi e promozioni per fare del buon marketing.

Parliamo per prima cosa di una prassi molto amata dagli italiani: i campioni omaggio!
I giovani rincorrono le hostess che distribuiscono sigarette o Redbull e le signore più in là con gli anni dimostrano eterna gratitudine a chi allunga loro un campione omaggio di crema antirughe, che regolarmente comprata costerebbe una buona fetta di pensione.
I campionoi omaggio funzionano, sia perché sono altamente democratici (vengono distribuiti a tutti indistintamente) e ci fanno assaporare qualcosa nella speranza che non potremmo più farne a meno. E a volte funziona, se il prodotto è davvero valido.

Un altro tipo di promozione è quella che si basa su scontistica, quindi denaro. In tal caso si fa leva sulla convenienza dell’affare, così conveniente da spingere all’acquisto anche di un prodotto di cui non si ha reale necessità o che non è di qualità eccelsa. Funziona più per le vendite una tantum che per la fidelizzazione del cliente.

Un discorso più complesso va fatto poi per i loyalty program che sono per loro natura continuativi e mirano alla fidelizzazione del cliente intrecciando anche diverse promozioni, dagli omaggi, agli sconti, alla semplice comunicazione diretta per coinvolgere il cliente in maniera diretta ad esempio sul miglioramento dei servizi/prodotti aziendali.

Possiamo semplificare dicendo che l’iniziativa Trenitalia potrebbe rientrare in un programma loyalty, ma diciamo anche che lo stanno facendo nel modo sbagliato. Loyalty vuol dire fedeltà, lealtà. Fiducia in senso lato.

Quando si omaggia qualcosa o si propone uno sconto, la fiducia sta nel patto che cliente e fornitore siglano silenziosamente. Fidandosi che lo sconto sia reale e la merce buona. Una caramella, in questo caso sicuramente omaggiata da Caffarel il cui nome appare in evidenza nel lieto annuncio, non sembrano un grande regalo alle donne clienti di Trenitalia. Intendiamoci le caramelle vanno benissimo se distribuite, a tutte, senza troppa pubblicità come gentile pensiero disinteressato. Ma fare del marketing sul nulla e riservando i benefit a un target molto ristretto di persone a fronte di una festa che invece riguarda indistintamente tutte le donne, è un brutto autogol da parte di un’azienda pubblica come Trenitalia.

A Trenitalia per fortuna lo hanno capito e l’annuncio è presto sparito dal loro sito internet, anche se rimane ben diffuso e deriso nel web che come sappiamo non dimentica. In compenso il suddetto annuncio ha lasciato posto a quello dello sciopero nazionale del personale del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane indetto per la giornata dell’8 marzo.

Le Frecce però circoleranno normalmente, zeppe di squisite caramelle al limone.

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Alibaba e l’omnichannel

Alibaba l’unico vero gigante omnichannel

Alibaba, colosso e-commerce cinese, ha tanto da insegnare e recentemente fa scuola su tutti i fronti.

Intanto per chi non lo sapesse il marketing omnichannel è quel marketing trasversale a più canali. Non solo, è un po’ come una teoria pacifista del mercato. Un modello per cui commercio online e offline non si cannibalizzano tra loro, ma anzi collaborano nella creazione di un unico mercato sempre più fruttuoso e allargato.
Qui da noi è una teoria piuttosto utopica. Siamo abituati a dividere le persone in due categorie: i pigroni che comprano online e quelli all’antica che vanno ancora nella bottega sotto casa. In mezzo? Il nulla. Chiaramente non è così, e una via praticabile esiste.

Ma vediamo cosa sta combinando egregiamente Alibaba.

C’è da premettere che le idee chiare già le aveva qualche anno fa, quando nel 2009 Jack Ma, fondatore del colosso cinese, scriveva in una missiva agli azionisti che in futuro l’e-commerce da solo sarebbe stato destinato a morire, se non si fosse alleato con altre forze. In particolare il quadro perfetto già prevedeva: online, offline, piattaforme logistiche e big data.
Mai previsione fu più precisa. Per farla divenire realtà, Alibaba acquista una piccola catena di supermercati, Hema, e la rivoluziona per consentire ai clienti del negozio fisico un’esperienza integrata digitalmente. I consumatori possono acquistare la merce mediante l’app e ricevere gratuitamente la spesa se vivono nel raggio di 3km dal negozio fisico, oppure la si può ritirare bella che pronta in un determinato orario: addio code e stress da corsia. Il negozio non è più solo un punto vendita, ma diventa piattaforma logistica. Infine si può anche scegliere la spesa fisica in negozio e la consegna a domicilio. insomma ce n’è per tutti i gusti e per tutti gli umori. Infatti i consumatori non sono più divisi in barricate, ma l’acquirente, magari anziano, che solitamente ama recarsi al negozio di persona e toccare con mano il prodotto può tranquillamente farlo senza poi doversi spaccare la schiena o chiedere aiuto a volenterosi giovanotti, che solitamente esistono solo nei film, desiderosi di portare le borse all’anziana signora.

Cosa accomuna i differenti modi di acquistare? un unico profilo utente. Un unico login. Da Hema infatti non esiste il pagamento in contanti ma solo via Alipay, il paypall dedicato di Alibaba. Non esistono dunque consumatori anonimi. Gli acquisti entrano tutti a far parte di un enorme database che organizza le info su cosa, come, con che frequenza acquistiamo. Un bell’affare per Alibaba. 800 milioni di utenti registrati in Cina e se a questo uniamo la forza dei cookie, capirete che quello di cui stiamo parlando è una fonte di ricchezza non trascurabile.

Per ora i risultati sono impressionanti: i clienti Hema acquistano mediamente 4/5 volte in un mese, con una conversione all’acquisto del 35% nell’app dedicata. Non male insomma quest’omnichannel.

E noi dove siamo rimasti? Probabilmente a sbuffare per le code in cassa il sabato pomeriggio, ma poi la spesa online, non sia mai, altrimenti poi come facciamo a lamentarci?

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SumUp: starter kit per un negozio 100% digital

Se avete un negozio forse avete già sentito parlare di SumUp, ma da qualche giorno c’è una novità nell’aria che coinvolge anche l’e-commerce.

Come vi abbiamo raccontato nei giorni precedenti, il marketing deve supportare tutti i metodi di pagamento digitale per contribuire all’innovazione di mercato. Ed ecco che SumUp sembra aver capito tutto. SumUp nasce per supportare piccoli e medi commercianti nei pagamenti POS, con tariffe molto convenienti e la possibilità di abilitare i pagamenti POS in mobilità con un semplice terminale portatile o semplicemente con il proprio smartphone! Pensate ai vari Deliveroo, Just Eat & co., ad esempio, che hanno per natura un business mobile, questa tecnologia è per loro fondamentale. La novità grossa però è l’acquisizione da parte della fintech britannica SumUp della promettente Shoplo, sito internet che consente la creazione di uno shop online per vendere qualsivoglia prodotto.

Ma SumUp ha le mani in pasta anche in altri rami di business. Ha acquistato anche  Debitoor, società danese che offre una piattaforma software di fatturazione e l’italiana Incasso Rapido per consentire la rateizzazione dei pagamenti.

Insomma l’obiettivo tutt’altro che banale di SumUp è quello di offrire un vero e proprio starter pack alle piccole aziende che vogliono diventare digital ed efficienti al 100%.

La parola d’ordine sembra essere integrare, Chi ha il negozio fisico può vendere online, chi ha l’e-commerce può facilmente crearsi un punto di vendita fisico e consentire i pagamenti POS, oggi imprescindibili. Non solo, ma SumUp offre anche una cosa fondamentale nel mercato web di oggi: l’integrazione di pagamenti da parte di terzi tramite SDK e API, gestendo tutto da un’unica dashboard. Questo consente in maniera semplice di aumentare i potenziali clienti. Facile. Cosa manca allora alle PMI per vendere?

Non ci stancheremo mai di ripeterlo: un buon piano di marketing!

Perché se hai il serbatoio pieno, ma non sai dove andare, non farai molta strada…

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E se tornassimo a vendere prodotti e soluzioni invece dei like?

Qualche settimana fa su Gartner for Marketers ho trovato un interessante articolo sulla centralità del cliente e su tutto quello che il marketing dovrebbe fare proprio per mettere al centro il proprio cliente.

Come al solito Gartner è sempre in grado di fare la differenza e gli spunti che si possono prendere da questo tipo di articoli sono sempre molti.

La prima cosa che mi ha colpito sicuramente è la questione del linguaggio. Il linguaggio del marketing sta lentamente alterando la nostra percezione del cliente, incoraggiandoci a pensare al cliente come un numero e non ad una persona da soddisfare.

Ogni giorno in ufficio usiamo parole come “content”, “engagement”, “conversion” ma a casa diciamo mai a nostri figli “vuoi guardare un buon contenuto su Netflix?” oppure “sei stato ingaggiato dal post di tizio”? “il tuo tasso di conversione al video di Youtube è stato adeguato?”

Scherzi a parte, ogni azienda oggi ha una “strategia di engagement” per creare “rapporti più stretti con il cliente” con una “content strategy” per rendere il proprio brand “top of mind”. “Autentiche relazioni con il cliente”, “personal branding”, “influencing”, “data driven creativity”, “channel marketing”, “integrated planning” … e si potrebbe andare avanti per ore. Tutte cose utili per il brand, ma assolutamente poco utili per il cliente.

Una persona ha circa 500 brand (ma perché li chiamo brand e non marchi, maledetto gergo del marketing!) che girano attorno alla propria quotidianità. Dal mangiare alle comunicazioni, dalla cucina alle macchine, dalla TV al tempo libero. Con quanti di questi marchi vuoi essere “ingaggiato” oggi? Con quanti di questi marchi cerchi attivamente e regolarmente informazioni da leggere, vedere, ascoltare e trovare “contenuti rilevanti”? Quanti di questi marchi sono così importanti per la tua vita da renderli “top of mind”? Con quanti di questi marchi tu vorresti investire il tuo tempo e la tua attenzione per “legarti” e costruire una “un’autentica relazione” ed essere influenzato nella tua vita?

Non so voi ma la mia risposta di pancia è … zero?

Molti marchi sono convinti della centralità del brand nei confronti dei clienti da pensare che le strategie incentrate su impression, click e conversion siano quello che il cliente cerca, senza considerare assolutamente i desideri, i bisogni e i motivi per cui un cliente compra un determinato bene. Il brand al centro è diventato il mantra del marketing oggi. Ieri il cliente era al centro, oggi pensiamo a clienti in cerchio adoranti un marchio che soddisfa i loro bisogni.

Purtroppo sempre più spesso ci dobbiamo confrontare con il fatto che tra il “mi piace” e “ti compro” c’è un abisso importante che non si scala semplicemente con il gergo del marketing. Se un cliente ti compra è perché ha bisogno del tuo prodotto, se ti sei concentrato sul “mi piace”, sul sogno, sulla “impressione” e non sei stato in grado di spiegare quali sono i bisogni a cui il tuo prodotto risponde, molto probabilmente avrai tanti click sui tuoi social, tanti accessi sul tuo sito, ma poche vendite.

Proviamo a tornare nei panni del cliente, parlare come parlano le persone normali, quelle che comprano il tuo prodotto.

·        Io, Cliente

·        con questi bisogni, desideri e motivazioni

·        in questa specifica situazione

·        che conosco il tuo marchio

·        voglio interagire con il tuo marchio per questa motivazione

·        ed ottenere questo beneficio

Sei tu il marchio che risponde a questa facile domanda?

Si può parlare per ore di “customer perspective”, di “buyer persona”, di “customer journey”, di “customer experience”, di “loyalty” e di mille altre tecnicismi del marketing ma se non siamo in grado di rispondere alla domanda qua sopra, tutto quello che stiamo facendo per il marchio è finalizzato all’ego del marchio stesso e non a “far comprare il prodotto” che visto nell’ottica dell’azienda pare trasformarsi in “vendere”.

Per quanto possa sembrare strano, il marketing non è solo comunicazione. Non è solo immagine. Non è solo like. Marketing significa “andare sul mercato” e le aziende devono tornare a capire che sul mercato ci si va con prodotti, con servizi, con qualcosa che risponde ad un bisogno e ad una domanda di un cliente, che ti paga per risolvere un suo problema.

Pensiamo come clienti. Compriamo quello che ci serve. Non quello che ci piace.

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YouTube e i video saranno ancora al centro del marketing nel 2019

Come di consueto il primo post dell’anno nuovo non può che parlare di tendenze e buone intenzioni. Quest’anno però non vogliamo fare un elenco generale, ma parlarvi di un solo aspetto che caratterizzerà marketing e comunicazione in maniera preponderante: il video. Sai che novità, direte voi. In effetti non è la scoperta dell’acqua calda, ma vogliamo approfondire il topic perché i video sono destinati a rimanere sulla cresta dell’onda e a farsi spazio ancora più prepotentemente nel mondo della comunicazione commerciale.

Abbiamo già accennato a come Instagram abbia rivoluzionato il modo di fruire i video. La visualizzazione verticale, prima di tutto, ma anche le implicazioni trasversali legate alla fruizione quasi esclusivamente da mobile, stanno cambiando le regole del gioco. Cambiano gli utenti e il tipo di attenzione dedicata ai prodotti visivi a misura di social. Instagram è spesso e volentieri un riempitivo, più dell’antenato YouTube, destinato a essere fruito in metro, ai semafori e nei ritagli di tempo, anche minimi. La visualizzazione è più rapida o meno attenta, ma il numero di video caricati e di utenti attivi aumenta vertiginosamente. Conseguenze? I video non sono più lungometraggi che necessitano di molte ore di pre e post produzione. Vanno pensati, girati e pubblicati rapidamente, pena: arrivare secondi o peggio ancora, risultare non attuali, vecchi. Fortuna che esistono gli smartphone a garantire un’ottima qualità video senza necessità di grandi strumentazioni tecniche, tenendo conto, inoltre, che i video in questioni saranno nella maggior parte dei casi riprodotti su uno schermo che va dai 5 ai 7 pollici. In definitiva viene premiata la reattività, l’attualità e la veridicità del video, piuttosto che l’estetica. Questo è dovuto anche al fatto che difficilmente si tratta di prodotti simil-cinematografici, quanto più di videocommenti, o anche piccoli sketch nel caso di Instagram

Abbiamo accennato al Tubo, che molti davano per spacciato, sbagliandosi, a causa dell’avvento prima di Facebook e poi di Instagram. Ma il bello delle tendenze tech è che sono imprevedibili. E dopo l’esplosione del social network creato da Zuckerberg e la sua recente frenata, in favore di Instagram, quello che sta accadendo è un rinvigorimento della piattaforma completamente dedicata ai video, anche di lunga durata. Molti youtuber tirano un sospiro di sollievo, avendo basato la loro professione proprio su views e popolarità. Certo la concorrenza è spietata.

Ma il marketing 2019 sembra non poter fare a meno dei suoi influencer ed è disposto a investirci anche in maniera massiva. Secondo una ricerca promossa dallo IED di Milano che prende in esame la realtà italiana, è emerso che il 64% delle aziende intervistate si è rivolto nel 2018 a degli influencer: lo ha fatto l’80% delle multinazionali, il 57% delle PMI e almeno una startup su due. A chi pensa che per fare  risultati occorra per forza scomodare la Ferragni, si sbaglia! Gli influencer in Italia sono centinaia, migliaia. Non tutti hanno un seguito massivo come i top-player che chiedono decine di migliaia di euro per un unico post, ma anche gli influencer minori che si “accontentano” dei prodotti gratuiti in cambio della loro sponsorizzazione, possono dare una mano alla crescita aziendale, soprattutto per quanto riguarda brand awareness ed engagement. La pubblicità tradizionale, quella da spot televisivo (a potersela permettere) funziona solo a fronte di investimenti alti sia per la realizzazione che la messa in onda e con gli ascolti televisivi in calo, vale ancora la pena?

Al contrario sui social, ci siamo tutti. Forse ci dedichiamo solo qualche minuto al giorno e forse un po’ distrattamente, ma il bacino di utenza è immenso! Un influencer non deve per forza essere una star. Lo dice il nome stesso, deve essere una persona influente per i motivi più svariati e non è detto che il suo essere una persona “comune” non sia un punto di forza che può rendere, talvolta, più naturale e apprezzato il lavoro svolto, la recensione o la sponsorizzazione per chi ne fruisce. Inutile a volte lanciarsi in investimenti massicci e poco studiati per arrivare ai big senza avere fatto uno studio di settore. Pagare cifre assurde per far sponsorizzare da Fedez una collana di fumetti non so quanto possa essere utile perché quello cui si rivolge il rapper, sebbeno molto ampio, è un target differente dal tipico lettore di anime.

In sostanza l’IM sembra essere la chiave di volta più per quel tipo di acquisto che si effettua sull’onda dell’entusiasmo e non sugli acquisti più ragionati e impegnativi. Difficile comprare un’automobile perché la guida Ronaldo, per quanto tutto quello che lo riguarda sembri così cool! Ma resta il fatto che in tutti i settori occorre esserci. Perché? Perché ci sono tutti. E se spesso il marketing che sfrutta video e social non significa un diretto incremento delle vendite, non farlo significa invece uno svantaggio competitivo importante rispetto ai concorrenti che si fanno riconoscere anche su Instagram, ad esempio.

Insomma, nulla si improvvisa e spendere tanto non vuole dire sempre spendere bene, anzi.

L’unica cosa certa che rimane è la presenza sempre più forte del video nel 2019 appena iniziato. Video non solo per pubblicizzare, video per intrattenere, video per educare, per insegnare, per divulgare. E il videomaking, dalla sua ideazione alla sua realizzazione e propagazione, non si improvvisa. Come abbiamo detto è sempre più un’arte rapida e semplificata dalla tecnologia, ma mai semplice. Per chi ancora non ci avesse pensato, occorre esserci e preparare il proprio ingresso in campo, per non rischiare di essere messi da parte, di non essere visualizzati o condivisi e passare quindi inosservati.

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Site Kit Google: il nuovo plugin WordPress che faciliterà la vita al web marketing

Per ora si tratta di una versione beta che sarà disponibile a inizio anno per coloro che si iscrivono.  Dopo un periodo sperimentale dove probabilmente Google raccoglierà i feedback dei clienti e sistemerà i bug fisiologici, il plugin sarà completamente free. Ne ha parlato per la prima volta Giorgio Tavernitiin uno dei suoi interventi su YouTube, ecco cosa abbiamo capito.

Di cosa si tratta?

Di uno strumento molto utile per le PMI e per tutti coloro che gestiscono un sito business. Infatti il plugin condenserà e renderà accessibili direttamente da WordPress i dati oggi suddivisi e raccolti in: Search Console,  Analytics, AdSense e Page e Speed Insight. Una mole di dati e informazioni decisamente impressionanti. Tra l’altro senza un grosso sforzo per Google essendo già strumenti esistenti che andranno a mescolarsi per creare una super dashboard fondamentale per chi si occupa di indicizzazione e marketing.

Si, in effetti questi strumenti già esistono, non è un vera e propria rivoluzione. Ma quanti possono dire di saper analizzare e utilizzare in maniera proficua i dati della search console ad esempio? Raggruppando diversi tool in un unico plugin Google fa una mossa molto astuta e che gli riesce sempre molto bene: si rende indispensabile senza inventare nulla di nuovo. Esattamente come ha fatto con Gmail e Chrome. Sai che bella idea, una casella di posta, sì ma come tutti sappiamo Gmail è LA casella di posta, così come ormai Chrome è IL browser per cui tutti i siti web si ottimizzano, nonché il browser predefinito da quasi tutti gli smartphone esistenti.

Insomma quando Google mette sul mercato un nuovo prodotto, è per dominarlo, non certo per fare la comparsa. In quest’ottica siamo sicuri che Site Kit farà parlare molto di sé, tanto che siamo qui a scriverne prima ancora che la versione beta sia disponibile. Legando tra loro i 4 strumenti Site Kit farà da cassa di risonanza ad ognuno di essi, alimentando ancor di più il dominio Google della Rete. Beh diciamo pure di tutta la Rete, esclusi i social network, visto e considerato il triste epilogo di Google Plus!

 

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La difficile arte del copy e della soddisfazione del cliente

Ore 17.30.

Anche questa giornata lavorativa sta per volgere al termine, come sempre mi tengo i lavori più meccanici per quest’ora, so che la mia mente è meno lucida, meno creativa e meno attenta.

dlin.

Una nuova mail sulla casella di posta. Il feedback di un cliente che stavo aspettando. Giusto il tempo di leggere le prime due righe e chiudo tutto, ci penserò domani. Ma prima vi spiego.

Non è che io non ami i feedback, al contrario. Noi copy li attendiamo sempre con ansia, ci piace migliorarci se non siamo riusciti a interpretare alla perfezione l’intenzione del cliente. Ma esiste quel tipo di cliente che non ti spiega che cosa voleva far passare e cosa invece sembri aver messo per iscritto tu. Esiste quel cliente che ti fa la correzione con penna rossa delle tue parole. Badate bene, non di accenti, né dell’ortografia, sacrosante correzioni, bensì il cliente che poi i testi se li vuole scrivere da solo.

La vita del copy è dura. Le parole fanno fatica a farsi belle in questo luccicare di immagini e scorrere di video. Le parole sono un’arte molto meno impattante, ma non meno certosina. Più oscura e meno facilmente intellegibile.

Vediamo cosa può accadere nel concreto.

Il Professore

Una cosa che accade spessissimo: il cliente corregge il tuo copy con parole più forbite.

Come se tu fossi un buzzurro che non conosce la d eufonica o non conosce l’utilizzo del “loro” come complemento di termine. Come se la cosa più furba per vendere il ricambio di un rubinetto sia usare un distico elegiaco.

Vi sveliamo un segreto: l’utilizzo a proprio favore del contesto e dello scopo, quindi del registro adatto. Forbito non è sempre bello e non è sempre utile!

Il Poeta/filosofo

Simile al professore, non pretende per forza l’utilizzo di parole desuete o arcaiche, ma è particolarmente affezionato all’utilizzo di metafore e giri di parole. Come se per vendere una bicicletta noi parlassimo delle “due ruote che ti spalancheranno le porte dell’indipendenza, facendoti volare sulle ali della libertà”.

Un altro piccolo segreto per voi: esagerare non è più di moda. A vincere è la chiarezza, non solo in funzione della nostra ormai cara amica SEO, ma anche per non risultare ridicoli e anacronistici, esagerati come la televisione anni ‘60, quando l’eccesso era ancora una novità gradevole e non nauseante.

Il Menefreghista

Come vi dicevo, i feedback per fare un lavoro di copywriting ben fatto sono fondamentali. Si dà per scontato (dovrebbe darsi per scontato) che chi scrive per professione sappia utilizzare al meglio le parole, ma non è detto che abbia capito a pieno quello che il cliente desidera. In quel caso brief iniziale e feedback sono strumenti utilissimi. Il Menefreghista si fida e questo ci fa piacere, ma si fida così tanto da dare un brief tipo: “fai tu”, oppure “inventa qualcosa”. Il copy le parole le sceglie, le seleziona, le lima, le dispone, ma non inventa nulla. Il menefreghista insiste e anche quando tu hai a fatica inventato servizi, storia e prospettive del cliente, lui non ti farà mai sapere se il tuo copy andava bene o meno. Senza degnarlo di lettura lo fa inserire nel suo sito web nuovo di pacca, senza aver dato la minima attenzione o dignità a quelle parole che rappresentano la sua attività.

Infine, non facciamo di tutta l’erba un fascio, esiste anche il cliente perfetto. Quello che sa benissimo che il copy può aiutarlo, ma che anche lui deve metterci del suo. Si mette alla scrivania con te, ti racconta, ti emoziona e poi ti spiega, scendendo nel tecnico anche solo per farti capire di cosa stai scrivendo. Poi tu fai la prima stesura, aspetti un feedback che arriva, di una persona che ha letto e capito quello che hai buttato giù per lui, ma vorrebbe alcune modifiche e preferisce che sia tu a metter mano al testo. Ti offre qualche dettaglio in più che gli era passato di mente e come una spugna apprendi e poi riscrivi cercando di dare ulteriore qualità a quelle righe. Alla fine il testo c’è. Pronto. Alcune modifiche magari non le hai potute fare perché per esperienza sai che certe frasi vanno ripetute, che alcuni termini come incidente o incendio vanno evitate su un sito che vende automobili, anche se usate metaforicamente o usate positivamente. Infine consegni il tuo copy per te impeccabile e il cliente ti ringrazia per averlo seguito in questo percorso in cui avete entrambi imparato qualcosa.

Qui abbiamo voluto semplificare un po’ per riderne, un po’ per diletto personale, ma ogni cliente è differente e ci richiede un lavoro e uno sforzo differente. Da ognuno, anche dal “peggiore” o più rognoso, possiamo imparare tanto ed è quello che proviamo a fare, cercando di accontentarli tutti offrendo il miglior servizio possibile. Cercando di avere sempre una parola buona per tutti.