Categorie
Contenuti

Il mio ghostwriter è differente

Quasi un annetto fa, la mia ghostwriter preferita si è divertita a scrivere un articolo sulla difficile arte del copy e di come i diversi clienti possano interpretare il risultato del tuo output finale, ma oggi invece voglio raccontarvi come da una banale news si possa andare a creare un articolo complesso e avvincente su tematiche al limite del paranormale.

Partiamo dall’inizio. Ormai da quasi due anni, noi scriviamo in ghost per un’importante realtà che opera nel mondo della sicurezza informatica. Tematiche complesse, divertenti, di moda estrema, avvincenti a volte quasi al limite della fantascienza e delle scenografie di uno 007.

Verso la metà dello scorso mese, in una delle mie tante serate a caccia di informazioni attraverso il mio fidato feedly, che mi aggiorna su qualsiasi argomento mi interessi, sia personalmente che per i clienti per cui lavoriamo, trovo un articolo molto interessante relativo ad un contest che si doveva tenere da lì a poche settimane in USA sulle migliori start up che operano nel mondo della cyber security.

Come sempre faccio, faccio il mio clic sulla pagina e bang. Mi trovo davanti ad una pagina con i nomi di tutte le start up invitate a questo contest e soprattutto leggo che tutti i precedenti vincitori degli enne anni prima avevano fatto un salto carpiato triplo all’indietro da fermo nel mondo sia della sicurezza sia della finanza. Insomma delle aziende col botto.

Cerco informazioni, convinto ormai che nel magico mondo del web ci sia una splendida landing page di presentazione dell’evento, di spiegazione delle company invitate, dei loro possibili speech di presentazione e … NULLA!

Cavoli. E adesso? Avevo un argomento fantastico, attuale, di cui nessuno aveva parlato in Italia, molto sexy, molto tosto e … non c’era nulla che mi potesse servire come traccia per iniziare a scrivere?

10 aziende. 10 link a 10 siti aziendali. Ok Ale, qua tocca fare il lavoro sporco, come si faceva una volta. Vi confesso che è stato un colpo di genio. Una giornata intera staccato da ogni forma di comunicazione esterna, si ogni tanto Telegram e il mio telefono si lamentavano della mia assenza dal mondo digitale ma … mi sono perso dentro il mio processo di analisi, di valutazione e di racconto di tutte le aziende. Ovviamente gli skill non sono solo quelli di scrittura, nel pezzo di cui sopra si parla sempre del cliente, in pochi si soffermano sul fatto che pochi sanno scrivere bene, che il copy è un lavoro, come lo è il programmatore, il grafico, il designer, l’insegnante, il pilota …

Va beh, gli skill di scrittura mescolati negli skill di web copywriting mi hanno rapito in un mondo di tecnologia super avanzata dove la prima sfida era capire chi fosse l’amministratore delegato dell’azienda. Trovare il profilo di Linkedin – pazzesco come CEO di aziende che stanno per fare il botto non abbiano un responsabile della digital reputation che sistemi i loro profili Linkedin prima di andare a fare lo speech più importante della loro vita – poi andare a trovare la loro mission. Sì la mission. Perché è nella mission che le aziende americane raccontano cosa fanno per i loro clienti. Si magari.

Anche le aziende di sicurezza informatica che stanno per presentarsi allo speech della vita … non sono in grado di sintetizzare in una frase o due quale sarà il vantaggio pazzesco che il cliente avrà scegliendo il loro prodotto.

E dopo il why, tocca andare a spiegare il come.

Sì, perché se sul why alla fine qualcosa la riesci a raccogliere qua e là nel sito, è il come che diventa veramente un disastro.

Perché per spiegare come un’azienda farà la differenza nella soluzione del tuo problema devi: capire il problema, capire la soluzione, spiegare il primo e il secondo in maniera che sia comprensibile a tutti i lettori.

Beh vi confesso che per alcune aziende è stato semplice riuscire a spiegare cosa facessero e dove fosse quel guizzo di genialità che poteva fare la differenza e il motivo per cui erano state portate a quel contest. Quando si inizia a parlare di mappatura olistica del grafo di grafici di tutta l’architettura di programmazione di un software con “tutte le interconnessioni all’interno dei vari livelli di codice e permette di identificare rapidamente le fonti di data leak, vulnerabilità critiche e violazioni della sicurezza/ compliance in anticipo e lungo l’intero ciclo di sviluppo del software” … ehhhh???

Va beh alla fine è stato veramente divertente andare a scartabellare in pagine su pagine di siti internet dai contenuti più o meno intellegibili e farli diventare qualcosa di interessante e di utile per il cliente.

La cosa più divertente sapete qual è stata? Alla fine ha vinto l’azienda che mi aveva attratto all’inizio di tutta la storia. Si quella su cui avevo letto la notizia sul mio Feedly. Tra dieci aziende che potenzialmente avevano la possibilità di fare il botto, ha vinto quella che aveva attratto la mia attenzione fin dall’inizio.

p.s. ecco i link agli articoli di quanto abbiamo scritto:

State of the Art della Sicurezza Informatica – Better is Better parte 1
State of the Art della Sicurezza Informatica – Better is Better parte 2

Categorie
Contenuti Strategia Web

E se tornassimo a vendere prodotti e soluzioni invece dei like?

Qualche settimana fa su Gartner for Marketers ho trovato un interessante articolo sulla centralità del cliente e su tutto quello che il marketing dovrebbe fare proprio per mettere al centro il proprio cliente.

Come al solito Gartner è sempre in grado di fare la differenza e gli spunti che si possono prendere da questo tipo di articoli sono sempre molti.

La prima cosa che mi ha colpito sicuramente è la questione del linguaggio. Il linguaggio del marketing sta lentamente alterando la nostra percezione del cliente, incoraggiandoci a pensare al cliente come un numero e non ad una persona da soddisfare.

Ogni giorno in ufficio usiamo parole come “content”, “engagement”, “conversion” ma a casa diciamo mai a nostri figli “vuoi guardare un buon contenuto su Netflix?” oppure “sei stato ingaggiato dal post di tizio”? “il tuo tasso di conversione al video di Youtube è stato adeguato?”

Scherzi a parte, ogni azienda oggi ha una “strategia di engagement” per creare “rapporti più stretti con il cliente” con una “content strategy” per rendere il proprio brand “top of mind”. “Autentiche relazioni con il cliente”, “personal branding”, “influencing”, “data driven creativity”, “channel marketing”, “integrated planning” … e si potrebbe andare avanti per ore. Tutte cose utili per il brand, ma assolutamente poco utili per il cliente.

Una persona ha circa 500 brand (ma perché li chiamo brand e non marchi, maledetto gergo del marketing!) che girano attorno alla propria quotidianità. Dal mangiare alle comunicazioni, dalla cucina alle macchine, dalla TV al tempo libero. Con quanti di questi marchi vuoi essere “ingaggiato” oggi? Con quanti di questi marchi cerchi attivamente e regolarmente informazioni da leggere, vedere, ascoltare e trovare “contenuti rilevanti”? Quanti di questi marchi sono così importanti per la tua vita da renderli “top of mind”? Con quanti di questi marchi tu vorresti investire il tuo tempo e la tua attenzione per “legarti” e costruire una “un’autentica relazione” ed essere influenzato nella tua vita?

Non so voi ma la mia risposta di pancia è … zero?

Molti marchi sono convinti della centralità del brand nei confronti dei clienti da pensare che le strategie incentrate su impression, click e conversion siano quello che il cliente cerca, senza considerare assolutamente i desideri, i bisogni e i motivi per cui un cliente compra un determinato bene. Il brand al centro è diventato il mantra del marketing oggi. Ieri il cliente era al centro, oggi pensiamo a clienti in cerchio adoranti un marchio che soddisfa i loro bisogni.

Purtroppo sempre più spesso ci dobbiamo confrontare con il fatto che tra il “mi piace” e “ti compro” c’è un abisso importante che non si scala semplicemente con il gergo del marketing. Se un cliente ti compra è perché ha bisogno del tuo prodotto, se ti sei concentrato sul “mi piace”, sul sogno, sulla “impressione” e non sei stato in grado di spiegare quali sono i bisogni a cui il tuo prodotto risponde, molto probabilmente avrai tanti click sui tuoi social, tanti accessi sul tuo sito, ma poche vendite.

Proviamo a tornare nei panni del cliente, parlare come parlano le persone normali, quelle che comprano il tuo prodotto.

·        Io, Cliente

·        con questi bisogni, desideri e motivazioni

·        in questa specifica situazione

·        che conosco il tuo marchio

·        voglio interagire con il tuo marchio per questa motivazione

·        ed ottenere questo beneficio

Sei tu il marchio che risponde a questa facile domanda?

Si può parlare per ore di “customer perspective”, di “buyer persona”, di “customer journey”, di “customer experience”, di “loyalty” e di mille altre tecnicismi del marketing ma se non siamo in grado di rispondere alla domanda qua sopra, tutto quello che stiamo facendo per il marchio è finalizzato all’ego del marchio stesso e non a “far comprare il prodotto” che visto nell’ottica dell’azienda pare trasformarsi in “vendere”.

Per quanto possa sembrare strano, il marketing non è solo comunicazione. Non è solo immagine. Non è solo like. Marketing significa “andare sul mercato” e le aziende devono tornare a capire che sul mercato ci si va con prodotti, con servizi, con qualcosa che risponde ad un bisogno e ad una domanda di un cliente, che ti paga per risolvere un suo problema.

Pensiamo come clienti. Compriamo quello che ci serve. Non quello che ci piace.

Categorie
Contenuti

La difficile arte del copy e della soddisfazione del cliente

Ore 17.30.

Anche questa giornata lavorativa sta per volgere al termine, come sempre mi tengo i lavori più meccanici per quest’ora, so che la mia mente è meno lucida, meno creativa e meno attenta.

dlin.

Una nuova mail sulla casella di posta. Il feedback di un cliente che stavo aspettando. Giusto il tempo di leggere le prime due righe e chiudo tutto, ci penserò domani. Ma prima vi spiego.

Non è che io non ami i feedback, al contrario. Noi copy li attendiamo sempre con ansia, ci piace migliorarci se non siamo riusciti a interpretare alla perfezione l’intenzione del cliente. Ma esiste quel tipo di cliente che non ti spiega che cosa voleva far passare e cosa invece sembri aver messo per iscritto tu. Esiste quel cliente che ti fa la correzione con penna rossa delle tue parole. Badate bene, non di accenti, né dell’ortografia, sacrosante correzioni, bensì il cliente che poi i testi se li vuole scrivere da solo.

La vita del copy è dura. Le parole fanno fatica a farsi belle in questo luccicare di immagini e scorrere di video. Le parole sono un’arte molto meno impattante, ma non meno certosina. Più oscura e meno facilmente intellegibile.

Vediamo cosa può accadere nel concreto.

Il Professore

Una cosa che accade spessissimo: il cliente corregge il tuo copy con parole più forbite.

Come se tu fossi un buzzurro che non conosce la d eufonica o non conosce l’utilizzo del “loro” come complemento di termine. Come se la cosa più furba per vendere il ricambio di un rubinetto sia usare un distico elegiaco.

Vi sveliamo un segreto: l’utilizzo a proprio favore del contesto e dello scopo, quindi del registro adatto. Forbito non è sempre bello e non è sempre utile!

Il Poeta/filosofo

Simile al professore, non pretende per forza l’utilizzo di parole desuete o arcaiche, ma è particolarmente affezionato all’utilizzo di metafore e giri di parole. Come se per vendere una bicicletta noi parlassimo delle “due ruote che ti spalancheranno le porte dell’indipendenza, facendoti volare sulle ali della libertà”.

Un altro piccolo segreto per voi: esagerare non è più di moda. A vincere è la chiarezza, non solo in funzione della nostra ormai cara amica SEO, ma anche per non risultare ridicoli e anacronistici, esagerati come la televisione anni ‘60, quando l’eccesso era ancora una novità gradevole e non nauseante.

Il Menefreghista

Come vi dicevo, i feedback per fare un lavoro di copywriting ben fatto sono fondamentali. Si dà per scontato (dovrebbe darsi per scontato) che chi scrive per professione sappia utilizzare al meglio le parole, ma non è detto che abbia capito a pieno quello che il cliente desidera. In quel caso brief iniziale e feedback sono strumenti utilissimi. Il Menefreghista si fida e questo ci fa piacere, ma si fida così tanto da dare un brief tipo: “fai tu”, oppure “inventa qualcosa”. Il copy le parole le sceglie, le seleziona, le lima, le dispone, ma non inventa nulla. Il menefreghista insiste e anche quando tu hai a fatica inventato servizi, storia e prospettive del cliente, lui non ti farà mai sapere se il tuo copy andava bene o meno. Senza degnarlo di lettura lo fa inserire nel suo sito web nuovo di pacca, senza aver dato la minima attenzione o dignità a quelle parole che rappresentano la sua attività.

Infine, non facciamo di tutta l’erba un fascio, esiste anche il cliente perfetto. Quello che sa benissimo che il copy può aiutarlo, ma che anche lui deve metterci del suo. Si mette alla scrivania con te, ti racconta, ti emoziona e poi ti spiega, scendendo nel tecnico anche solo per farti capire di cosa stai scrivendo. Poi tu fai la prima stesura, aspetti un feedback che arriva, di una persona che ha letto e capito quello che hai buttato giù per lui, ma vorrebbe alcune modifiche e preferisce che sia tu a metter mano al testo. Ti offre qualche dettaglio in più che gli era passato di mente e come una spugna apprendi e poi riscrivi cercando di dare ulteriore qualità a quelle righe. Alla fine il testo c’è. Pronto. Alcune modifiche magari non le hai potute fare perché per esperienza sai che certe frasi vanno ripetute, che alcuni termini come incidente o incendio vanno evitate su un sito che vende automobili, anche se usate metaforicamente o usate positivamente. Infine consegni il tuo copy per te impeccabile e il cliente ti ringrazia per averlo seguito in questo percorso in cui avete entrambi imparato qualcosa.

Qui abbiamo voluto semplificare un po’ per riderne, un po’ per diletto personale, ma ogni cliente è differente e ci richiede un lavoro e uno sforzo differente. Da ognuno, anche dal “peggiore” o più rognoso, possiamo imparare tanto ed è quello che proviamo a fare, cercando di accontentarli tutti offrendo il miglior servizio possibile. Cercando di avere sempre una parola buona per tutti.

Categorie
Contenuti

il Brand Journalism va sempre più forte

Oggi ogni brand ha la possibilità di diventare editore di se stesso.

Non è la novità dell’ultimo minuto, il brand journalism, soprattutto oltreoceano, esiste da un bel po’. Ma di anno in anno acquista sempre più credibilità e qualità.

Nasce negli USA e la prima azienda moderna a usare il brand journalism come evoluzione del marketing è stata il colosso dei fast-food, McDonald che con il suo allora capo dell’ufficio marketing, Larry Light, decise di combattere le polemiche sulla qualità del cibo della catena avvalendosi di veri e propri reporter che narrassero la storia del brand e lo facessero attraverso storie vere e dati reali.

Il brand journalism è pur sempre giornalismo. Quello che tenta di offrire è un servizio. Lo abbiamo ripetuto spesso. La pubblicità fine a se stessa non basta più, anzi, spesso viene evitata come la peste. Il racconto dell’azienda o del settore in cui l’azienda si muove è un servizio informativo che può arricchire l’immaginario del lettore e papabile cliente e soddisfare la sua sete di conoscenza e curiosità riguardo la vita dell’azienda o di chi ne fa parte.

Lo ha fatto benissimo Red Bull arrivando perfino a stampare una versione cartacea della sua rivista che racconta l’universo di riferimento del prodotto, più che il prodotto stesso. In America, in edicola è tuttora reperibile The Red Bulletin, la rivista, edita dalla casa produttrice di energy drink, che racconta gli sport estremi e la musica, le tendenze di quella fascia di età giovane e principale consumatrice del prodotto.

Ma oggi il concetto si è allargato a dismisura. Così come il journalism tradizionalmente inteso non esiste più figuriamoci la sua connotazione markettara. Le ricette da cucina nelle storie Instagram potrebbero essere una nuova frontiera del brand journalism per chi vende lievito, ad esempio. Infinite sono le declinazioni e le prospettive, anche professionali.

Chi è, infatti, il brand journalist?

Principalmente una figura ibrida. Un giornalista, con la crisi della carta stampata che c’è sono molti infatti a dover virare sul marketing e a reinventarsi. O potrebbe essere tranquillamente un copy interno all’azienda che conosce a menadito la corporate preposition, la storia dell’azienda e il contesto in cui si muove. Per questo motivo il brand journalism è difficile da esternalizzare, per cui non è una roba da imprese a conduzione famigliare. L’ideale sarebbe una figura dedicata (o più facilmente più di una) e chi può permettersela sono le grandi aziende. Quelle che possono finanziare un team ad hoc che si lanci nella creazione di servizi video, reportage, ecc.

Insomma il brand journalism fatto bene forse non è per tutti, ma a tutti può insegnare qualcosa su come parlare ai propri prospect, offrendo come sempre, qualcosa in dono.

Categorie
Contenuti Social Web

IGTV: lo smartphone è pronto a sfidare il 50 pollici di casa

Le persone. dicevamo, passano molte ore al giorno su Instagram. E la community conta quasi più del canale su cui si crea, una volta che si è solidificata. Per questo per Instagram è in un momento d’oro e ne approfitta. Non a caso l’app ha deciso di scendere ora in campo con una grossa novità: l’IGTV, la tv di Instagram. Da oggi, anzi da ieri, è possibile condividere video lunghi fino a 60 minuti, (beh 10 minuti per i comuni mortali, 60 per chi fa views da capogiro) rigorosamente in VERTICALE! Solo qualche anno fa una cosa del genere era impensabile, la tv era rigorosamente orizzontale, wide screen, apprezzata su televisori tanto più grandi quanto più appaganti. Vade retro a parlare di video verticali, sintomo di incapacità e dilettantismo. Ma oggi le cose sono cambiate, anche i più snob hanno dovuto adattarsi per non venir tagliati fuori.

Chi ha più tempo, d’altronde, per restare a casa a guardare la tivù? Escludendo le fasce di età più avanzate, sono rimasti davvero in pochi i giovani a concedersi questo lusso. Meglio lo smartphone per i tempi morti, per guardare video pigramente sdraiati o seduti ovunque.

La tv di Instagram promette bene, perché nasce cavalcando il boom del social. E alcune aziende hanno già deciso di buttarsi e sperimentare, ma non chiamiamola “pubblicità”. Ormai è un concetto trito e ritrito che il messaggio promozionale fino a se stesso va morendo, o meglio, che deve arrivare alla fine di una lunga trafila disinteressata di content ad hoc, di contenuti utili e di intrattenimento a solo beneficio di chi ne usufruisce senza per forza mirare a un riscontro diretto. E per chi pensa che sia una perdita di tempo, vi accorgerete presto che sarete gli ultimi rimasti a non portare in dote nulla ai vostri possibili clienti. Sarete gli ospiti che si presentano a cena senza vino, state certi che ci penseranno due volti a invitarvi nuovamente!

Insomma l’IGTV è una possibilità, non tutti possono coglierla. Fare i video è time-consuming, servono risorse, anche per prodotti di bassa qualità tecnica. Servirà, inoltre, almeno una buona idea alla base? Quindi tempo ed esperienza, un piano editoriale alle spalle, persone sul pezzo per seguire il progetto. Non è una passeggiata. Per ora IGTV struttura principalmente in base alle nostre attuali connessioni, si tratta d’altronde di una fase embrionale della piattaforma che NON prevede la possibilità di inserire pubblicità e quindi guadagnare con i video.

Ma cosa ci dà in cambio? A parte la suddetta reputation, ci offre una cosa preziosissima in area marketing: i dati. Informazioni dettagliate su chi ci guarda, da dove, a cosa è maggiormente interessato. Questo è l’aspetto più interessante in effetti se si vuole provare a stringere qualcosa con le fantomatiche views, avendo così un ampio campione su cui studiare strategie di marketing ad hoc da distribuire con mezzi differenti.

Ikea, Nike e altri grossi brand sono già scesi in pista per la nuova sfida IGTV anche se non sembra che sviluppino contenuti nativi per la piattaforma, ma piuttosto si limitano a riadattare al canale prodotti comunicativi giù spesi altrove. Ma state in guardia, IGTV non sfida solo YouTube, mette in pericolo la vecchia e apparentemente immortale televisione, in un momento di forte crisi del piccolo schermo, e state sicuri che se si arriverà alla battaglia, sarà una lotta all’ultimo spettatore.

Categorie
Contenuti Social Web

Condé Nast contro la crisi schiera gli influencer sotto la guida esperta dell’inventore di Ferragni

La carta stampata è in fin di vita?

Che l’editoria non si occupi solo più di carta stampata, seppur patinata, lo avevamo capito da almeno una decina di anni. Contenuti digitali e transmediali la fanno da padrona. Oggi, però, non basta ancora. Il mondo editoriale è una giungla in cui sono in pochi ad avere le risorse necessarie per sopravvivere. Non è questo il caso di Condé Nast che con la sua storia secolare (fondata nel 1909) e le sue pubblicazioni internazionali di successo (Vanity Fair, Vogue, The New Yorker) non rischia di chiudere i battenti, ma ha risentito come tutti del crollo degli introiti pubblicitari della carta stampata.

La sfida è quindi quella di rinnovarsi, continuamente. Condé Nast Italia, per farlo, si è inventata la Condé Nast Social Talent Agency: la prima agenzia di influencer ad essere gestita da un gruppo editoriale, e che gruppo. A gestire il tutto sarà un vero social-guru, anche se il suo nome potrebbe non dirvi molto, si tratta di Riccardo Pozzoli, colui che ha creato l’impero Ferragni prima dell’era “Ferragnez” e che con Chiara, oltre che il business, divideva anche la vita privata. Con i suoi 27 influencer italiani e internazionali è il più grande incubatore di social talent in Italia.  Chi sono i prescelti? In parte sono i diplomati dalla Condé Nast Social Academy: una scuola nata per formare veri e propri professionisti dell’influencing marketing (e qui torniamo al discorso che fare solo i giornali non basta più). Altri sono stati scelti per coprire diversi settori, dal food al travel, ma con un criterio comune di base: la qualità. Più dei numeri nella scelta, ha pesato lo storytelling e le cose che i prescelti hanno avuto e avranno da dire, tanto che la parola d’ordine è #ShareRealTalent: atleti, attori, registi, fotografi saranno gli ambassador rappresentati dall’agenzia.

Il direttore ha spiegato una cosa per noi evidente, ma che molti faticano a capire: la focalizzazione, oggi che il mondo social è maturo, non sono i numeri, ma l’engagement!
I contenuti originali, vincono sui bombardamenti sponsorizzati. Non sono stati scelti professionisti del nulla, ma persone che avessero qualcosa da dire di interessante e relativo alla loro nicchia lavorativa e al loro mondo di passioni. Non dei tuttologi.

Pozzoli stesso ha dichiarato: “Il contenuto è al centro dei nostri pensieri, perché rappresenta la risposta a un bisogno condiviso da utenti e investitori. I nostri talent sono creatori di contenuto capaci di restituire più che la semplice immagine”.

Stiamo a vedere cosa combineranno i nuovi professionisti dell’influencing marketing di alta gamma. SIamo sicuri che ci sarà da imparare e da ripostare!

Categorie
Contenuti Social

Instagram: tutta un’altra storia

Nel mondo reale non ti approcceresti mai a uno sconosciuto esordendo con “Ehi, mi chiamo Tizio e vendo automobili, te ne serve una?”. O meglio: capita che qualcuno ti allunghi un volantino proprio mentre stai per perdere un treno o ti placchi nel mezzo di un centro commerciale, durante una sessione di shopping compulsivo, per illustrarti le ultime novità di quel prodotto che non avevi mai sentito nominare.

Capita, è vero. Ma nessuno oserebbe mai chiamarlo storytelling, malgrado sia una parola ormai sulla bocca di tutti.

Il volantinaggio è una chiara forma di advertising puro, anche piuttosto invadente, che infatti suscita reazioni disparate (o disperate, parlando in termini di marketing): un cenno di dissenso, l’indifferenza totale oppure un finto interesse che si traduce nell’accettare il volantino e gettarlo via quasi subito, senza averlo nemmeno letto né badato alla differenziata.

Sventolare le proprie qualità e i propri prodotti sul web non trasforma tutto questo in storytelling o, più precisamente, in branded storytelling. Cambia il mezzo ma non la modalità.

Ormai “Every company is a media company” è un concetto assodato. Grazie al web siamo tutti potenziali produttori di contenuti ma non necessariamente di “content”.

Se un’azienda parla di se stessa, raccontando magari la propria storia, non sta facendo branded storytelling ma di nuovo advertising.

Storytelling, infatti, non va tradotto letteralmente con “Raccontare storie” (che poi nel gergo italiano vuol dire pure “Raccontare balle”…), perché non si tratta di dire qualcosa ma di dare qualcosa a chi legge.

Nel 2015 e nel 2016 il Cannes Lions, uno dei premi più ambiti da chi si occupa di brand communication, non ha premiato nessuno dei candidati alla categoria Branded Content perché la maggior parte dei progetti in gara erano campagne promozionali, non prodotti editoriali che creavano valore per l’audience. C’era un solo protagonista in quelle “storie”: il prodotto. Erano tutti progetti che, anziché coinvolgerti per convincerti, puntavano a convincerti e basta.nessuno perché la maggior parte dei progetti in gara erano campagne promozionali, non prodotti editoriali che creavano valore per l’audience. C’era un solo protagonista in quelle “storie”: il prodotto. Erano tutti progetti che, anziché coinvolgerti per convincerti, puntavano a convincerti e basta.

Invece per coinvolgere il pubblico – e fare vero storytelling – un brand deve trasformarsi in una storia che si discosti da se stesso per diventare la storia di altri di cui condivide i valori.

Lo sanno bene i produttori di pneumatici più famosi al mondo, che devono gran parte della loro popolarità proprio a un prodotto editoriale: le guide gastronomiche firmate Michelin.

Pubblicazioni annuali destinate alle persone e create per le persone, dove il prodotto (le gomme) c’entrava solo indirettamente. Il punto era dare ai clienti qualcosa che potesse interessarli davvero. In poche parole: creazione e condivisione di valore (e di valori).

Poi, se la curiosità di provare i ristoranti consigliati nelle guide avesse spinto i lettori a prendere l’auto e partire (consumando i propri pneumatici o testandone magari l’inadeguatezza!), ancora meglio. Ed era probabile che, al momento di cambiare gomme, quelle persone si sarebbero rivolte proprio alla Michelin che, attraverso quel prodotto editoriale utile soprattutto a chi lo leggeva, era entrata in relazione con loro guadagnandosi anche la loro fiducia.

Se le Guide Michelin sono nate nel 1900, quando ancora la rete non ci sommergeva di presunti “contenuti”, l’idea alla base di quella strategia è più che mai attuale. E oggi non c’è storia: le Stories che fanno da padrone sono quelle pubblicate su Instagram. E non mi riferisco solo al video di tuo cugino che, mentre tu cuoci in ufficio senza aria condizionata, ti rende partecipe delle sue ferie. Parlo delle Stories dei Brand. Grandi Brand, che hanno capito di dover fare content anche sui social network, perché è lì che stanno le persone.

Forse stupisce che 1/3 delle Stories più viste provengano proprio dalle aziende (ha stupito un po’ anche me, e invece pare che le persone preferiscano quasi seguire la squadra del cuore piuttosto che l’amico). E forse stupisce ancora di più che 1 Story su 5 riceva almeno un Direct Messanger.

Allora l’Inter ci prova e se la cava abbastanza bene con le grafiche, i test e i video in cui sono proprio i calciatori a dirti quante risposte hai azzeccato.

Lo fa anche il Real Madrid e con contenuti creati ad hoc (non pensavate di caricare sulle Stories video già fatti per altri canali…) in cui gli atleti – facendo il gesto dello swipe app – diventano parte della comunità di quel media parlando la stessa lingua.

Un altro esempio? Foodbites, che nei post mostra creazioni artistiche fatte col cibo e nelle Stories come si arriva a farle, sfidando i follower a provarci.

Oggi Instagram offre ai brand la possibilità di entrare in relazione con il potenziale cliente (tantissimi potenziali clienti…) attraverso contenuti originali pensati ad hoc.

Se forse in termini di ritorno economico il branded content (web o social) si rivela efficace nel medio periodo, comunque una strategia multicanale – fatta bene – può far crescere concretamente il business di un’azienda.

Per questo noi che lavoriamo nel mondo della comunicazione stiamo sempre con le antenne sollevate (l’ultima novità di Instagram in fatto di Stories risale a pochissimo tempo fa…).

Ah lo sapevate che Facebook tiene così tanto alle Stories da aver creato un’area dove vengono inserite le campagne più interessanti della settimana? Guarda e copia? No. Guarda e lasciati ispirare.

Categorie
Contenuti Web

Il sito brochure e il sito vetrina

Cinque domande da farsi per non sprecare soldi nel sito

In questi mesi abbiamo studiato numerosi siti internet di aziende piccole, medie e anche grandi che operano in tutte le tipologie di settori. Abbiamo guardato aziende di servizi, aziende di prodotto, aziende di settori alla moda e aziende che producevano beni assolutamente poco affascinanti e “notiziabili”.

Tutte le aziende che abbiamo analizzato hanno tutte una cosa simile: business assolutamente consolidati e fatturati molto elevati (le abbiamo selezionate anche guardando questi aspetti negli ultimi anni).

C’è qualcosa di sorprendente che accomuna la maggior parte di queste aziende: hanno una presenza digitale poco valida. Drammaticamente scarsa in molti casi.

Non sto dicendo che i loro siano dei siti brutti o poco funzionali. Sì, molti siti spesso non sono in linea con gli standard di Google. Una percentuale elevata è costituita da siti oggettivamente poco fruibili e spesso questi hanno delle grafiche veramente antiquate e poco piacevoli.

Quello che però ci ha veramente stupiti è un aspetto meno tecnico e meno estetico, ma abbastanza incredibile:

i siti che abbiamo studiato non servono allo sviluppo del business

Al di là della grafica, del sistema di gestione dei contenuti, della realizzazione dei contenuti stessi, delle immagini e dei testi da utilizzare ogni volta che si crea un sito per un’azienda o per un professionista bisognerebbe rispondere a questi fondamentali cinque set di domande:

1) Il tuo sito crea specifici risultati di business? I risultati sono misurabili? Hai un sistema per collegare lo sviluppo del business al tuo sito?

2) Il tuo sito è realizzato come se fosse il più avanzato ed efficiente strumento di vendita dei tuoi servizi e dei tuoi prodotti? Da ogni parte del tuo sito è chiaro e facile raggiungere la sezione di sviluppo del tuo business?

3) Il tuo sito riesce a creare un flusso consistente di nuove conversioni per il tuo business (lead, registrazioni, vendite)? Il tuo commerciale è in grado di interagire con il tuo sito per poter interagire a sua volta con il tuo business?

4) I contenuti e le risorse che pubblichi nel tuo sito sono utili e significativi per il tuo target e il tuo potenziale acquirente?

5) Hai realizzato un piano di marketing digitale finalizzato alla realizzazione di un processo di vendita adeguato all’incremento del tuo business?

Spesso quando si fa un sito si pensa a realizzare una brochure online senza però ricordarsi che la brochure viene spiegata e consegnata da un commerciale.

Se una brochure di 16 pagine viene presentata in una visita di 30 minuti o una presentazione aziendale viene seguita o anticipata da una telefonata di vendita di decine di minuti, perché le aziende decidono di non investire nel commerciale nel mondo del web?

Essere digitali non significa essere in grado di sopperire alle competenze di altri. Il vostro cliente non può prendersi la responsabilità di fare il commerciale a se stesso.

Il ruolo fondamentale di spiegazione dei perché comprare, di cosa comprare, di come comprare, di quando e dove comprare non possono essere demandati al cliente stesso.

Se si realizza un sito-brochure si deve realizzare anche un sito-venditore.
Se si crea un sito-vetrina ci si deve dotare anche di un sito-commessa.

Un sito che spieghi nei dettagli cosa l’azienda vende, racconti nel dettaglio i vantaggi dei prodotti/servizi offerti, informi sulle modalità di vendita ma soprattutto provi a convincere il cliente che il prodotto/servizio offerto è in grado di risolvere il suo problema.

Una brochure senza venditori, un negozio senza commessi, un sito senza area commerciale … ecco cos’è un sito non funzionale: un’occasione mancata di realizzare nuovo business per l’azienda.

 

Credits photo: Pexles, Flickr

Categorie
Contenuti

Perché curare i propri contenuti web e social oggi è più importante che mai

Chiunque sia stato in un museo conosce bene la differenza tra una visita guidata e una visita “libera”. All’inizio sembra più affascinante l’idea di muoverci a nostro piacimento per tutte le stanze della collezione e liquidare velocemente quello che non ci colpisce al primo sguardo. In realtà a fine percorso spesso ci rendiamo conto di non aver imparato nulla e magari di esserci annoiati.

Lo stesso accade nel marasma dei contenuti web: avere una guida è utile. Conoscendo a menadito tutto il museo, la guida ci indica il percorso su misura per noi a seconda delle nostre curiosità. Sa raccontarci simpatici aneddoti sui pezzi della collezione e tener vivo il nostro interesse. Se è una buona guida, si intende.

Lo stesso vale per la cura dei contenuti. È fondamentale avere qualcuno che organizzi i contenuti per gli utenti. Un content editor è necessario perché l’esperienza dell’utente non sia mai noiosa ma arricchente.

Per vendere c’è il marketing e il content editing è il fertilizzante del terreno su cui il marketing pianterà i suoi semi.

Curare i propri contenuti significa:

  1. avere un piano editoriale ben definito: i lettori devono sapere cosa aspettarsi. Il blog e i canali social vanno aggiornati con cadenza periodica per creare dipendenza, se saprete fare un buon lavoro;
  2. il marketing non è mai stato solo promozione. I contenuti devono essere vari perché l’utente resti sulla tua pagina il più a lungo possibile;
  3. oggi più che mai, però, occorre creare un’identità di brand che stimoli la reazione dell’utente. Bisogna avere il coraggio di esprimere la visione del brand, limitandosi agli argomenti che riguardano il proprio ambito. Sfruttate a vostro favore le opinioni degli influencer per avvalorare le vostre posizioni;
  4. curare i propri contenuti non è un servizio dedicato solo a chi vi segue già. Usate tag e riferimenti a terzi che possano destare interesse e voglia di condividere ciò che pubblicate. Così cresce una comunità: dialogando;
  5. segui e ti seguiranno. Non è la Bibbia a dirlo, ma l’esperienza. Il miglior modo per ottenere un Like è metterlo a tua volta. Identifica gli influencer che fanno al caso tuo, quelli più in linea con la filosofia aziendale e seguili, interagisci. Potrebbe essere l’inizio di una fruttuosa collaborazione.

Curare i propri contenuti digitali oggi è fondamentale. Se riuscite a farlo in modo interessante per chi vi segue, avrete guadagnato prima la loro attenzione e poi la loro fiducia, creando un audience che rispecchia l’azienda, cioè il miglior bacino in cui fidelizzare i clienti e trovarne di nuovi.

E non dimenticatevi che i vostri follower sono i vostri fan. A loro potete proporre idee nuove e promozioni avendo un feedback prima di lanciarle sul mercato.

A proposito, sapete già di che colore è la vostra azienda?

Categorie
Contenuti Strategia

Netflix creepy? Potrebbe andare peggio, potrebbe twittare Pornhub!

Netflix ha tirato le somme dell’anno appena passato… e lo ha fatto a suo modo. Il team comunicazione dell’azienda californiana si è sempre distinto per la sua brillantezza e simpatia, ma questa volta ha aggiunto anche un pizzico di sarcasmo saccente al mix di ingredienti.

In un tweet dall’account Netflix US, l’azienda ha ironizzato sulle 53 persone che hanno guardato “A Christmas Prince” ogni giorno negli ultimi 18 giorni. “Who hurt you?” chiede Netflix agli spettatori compulsivi del film natalizio. E il pubblico in parte si indegna, in parte risponde di battuta in battuta.

Perché l’indignazione?

Come se non fosse ovvio che Netflix collezioni informazioni sugli utenti. È proprio il meccanismo di base che consente alla piattaforma di streaming di proporre una libreria ad hoc per ogni utente, basata sui suoi gusti, su ciò che ha già visto e che Netflix ovviamente conosce.

Di fatto moltissime aziende utilizzano big data e analytics per le loro campagne di marketing, o per migliorare i servizi. Solo che noi non ne siamo coscienti – e dovremmo, perché le privacy policy sono (quasi) sempre chiaramente espresse dalle aziende – eppure non ce ne rendiamo conto e ci stupiamo. Netflix ha usato i dati non solo per personalizzare il servizio di streaming ma, in questo caso, anche per il social media marketing. Possiamo dire che sia stata più trasparente di altre compagnie, al massimo, ma non meno rispettosa della privacy. Non ha fatto alcun nome o rivelato alcuna informazione sensibile che fosse riconducibile a qualcuno di specifico. In compenso è riuscita a chiamare in ballo i propri utenti in maniera ironica e forse un po’ provocatoria, cosa che non tutti hanno apprezzato, definendo Netflix addirittura creepy. Che sia stata ortodossa o meno, la gestione dell’account twitter di Netflix ha certamente creato un piccolo caso mediatico intorno alla vicenda e, trattandosi di marketing, si può dire che l’esperimento sia riuscito, dunque.

Anche un altro brand di successo ragiona con meccanismi simili ed è Spotify, che ha da poco avviato una campagna ads proprio basata su dati raccolti riguardo ai gusti musicali dei propri utenti.

Il concetto è molto simile a quello sfruttato da Netflix, eppure nessuno ha alzato la voce contro la piattaforma musicale più famosa del mondo. Perché ce la siamo presa tanto con Netflix? Perché ha messo in ridicolo lo spirito natalizio? Perché ci siamo sentiti chiamati in causa come se ci avessero preso in giro per le decine di volte che abbiamo visto “Mamma ho perso l’aereo”? O forse per pigrizia: è più facile replicare a un tweet che a un cartellone.

Alla fine l’utente più illuminato di tutta questa polemica è PitchforksAtTheGate, che risponde così: “Could be worse. @Porhub could be tweeting…”