Oggi ogni brand ha la possibilità di diventare editore di se stesso.
Non è la novità dell’ultimo minuto, il brand journalism, soprattutto oltreoceano, esiste da un bel po’. Ma di anno in anno acquista sempre più credibilità e qualità.
Nasce negli USA e la prima azienda moderna a usare il brand journalism come evoluzione del marketing è stata il colosso dei fast-food, McDonald che con il suo allora capo dell’ufficio marketing, Larry Light, decise di combattere le polemiche sulla qualità del cibo della catena avvalendosi di veri e propri reporter che narrassero la storia del brand e lo facessero attraverso storie vere e dati reali.
Il brand journalism è pur sempre giornalismo. Quello che tenta di offrire è un servizio. Lo abbiamo ripetuto spesso. La pubblicità fine a se stessa non basta più, anzi, spesso viene evitata come la peste. Il racconto dell’azienda o del settore in cui l’azienda si muove è un servizio informativo che può arricchire l’immaginario del lettore e papabile cliente e soddisfare la sua sete di conoscenza e curiosità riguardo la vita dell’azienda o di chi ne fa parte.
Lo ha fatto benissimo Red Bull arrivando perfino a stampare una versione cartacea della sua rivista che racconta l’universo di riferimento del prodotto, più che il prodotto stesso. In America, in edicola è tuttora reperibile The Red Bulletin, la rivista, edita dalla casa produttrice di energy drink, che racconta gli sport estremi e la musica, le tendenze di quella fascia di età giovane e principale consumatrice del prodotto.
Ma oggi il concetto si è allargato a dismisura. Così come il journalism tradizionalmente inteso non esiste più figuriamoci la sua connotazione markettara. Le ricette da cucina nelle storie Instagram potrebbero essere una nuova frontiera del brand journalism per chi vende lievito, ad esempio. Infinite sono le declinazioni e le prospettive, anche professionali.
Chi è, infatti, il brand journalist?
Principalmente una figura ibrida. Un giornalista, con la crisi della carta stampata che c’è sono molti infatti a dover virare sul marketing e a reinventarsi. O potrebbe essere tranquillamente un copy interno all’azienda che conosce a menadito la corporate preposition, la storia dell’azienda e il contesto in cui si muove. Per questo motivo il brand journalism è difficile da esternalizzare, per cui non è una roba da imprese a conduzione famigliare. L’ideale sarebbe una figura dedicata (o più facilmente più di una) e chi può permettersela sono le grandi aziende. Quelle che possono finanziare un team ad hoc che si lanci nella creazione di servizi video, reportage, ecc.
Insomma il brand journalism fatto bene forse non è per tutti, ma a tutti può insegnare qualcosa su come parlare ai propri prospect, offrendo come sempre, qualcosa in dono.