Categorie
Tendenze Web

Il marketing deve sposare tutti i metodi di digital payment.

Viviamo in un’epoca rapida, dinamica, distratta. La nostra attenzione dura sempre meno, come dichiarano allarmati studiosi e scienziati ogni giorno. Con un’attenzione “volatile” come quella del 2019, chi vende deve puntare molto sul acquisto impulsivo: vedo→ clicco→ compro e poi chi ci pensa più. Cosa può fare il marketing insieme alla tecnologia per spingere su questo versante?  La parola d’ordine è digital payment.

C’è chi ha già puntato tanto sull’innovazione dei pagamenti, a partire dalle banche, chiaramente.  Banca Intesa Sanpaolo è capofila con 11,9 milioni di clienti di cui 8 milioni sono clienti multicanale; il colosso bancario sta puntando in modo massiccio sulla digital transformation e su un pubblico sempre più giovane, per la precisione parliamo di un piano d’impresa 2018-2021 che prevede circa 2,8 miliardi di euro di investimenti proprio per l’innovazione digitale. Un esempio di pagamenti senza troppo pensieri sono i jiffy pay, oggi Bancomat pay, un servizio che permette l’invio immediato di piccole somme di denaro a un contatto della rubrica mediante l’app. Il trend sui digital payments infatti mostra un vertiginoso aumento della transazioni, ma si tratta perlopiù di piccole cifre.

Allora come si può muovere invece il marketing per sfruttare a suo favore un mercato di clienti sempre più impulsivi e distratti?

Innanzitutto occorre puntare su campagne studiate ad hoc per il mobile, perché come abbiamo accennato è lì che muove il nuovo mercato. I primi step è quello di esserci: non solo siti responsive, ma anche app dedicate se si ha un numero di potenziali utenti che giustifichi l’investimento. Sfruttare i social, chiaramente, concentrandosi sulla loro visualizzazione mobile infine rendere rapidissimo il passaggio tra presentazione prodotto/servizio e pagamento effettivo. Perché come dicevamo, l’acquisto è compulsivo e se il percorso tra incuriosire e transazione fosse troppo lungo, l’utente potrebbe essere distratto da 10 altre notifiche nel frattempo! Ma soprattutto il marketing non perde la sua natura, a prescindere dalla piattaforma che sfrutta.Quindi la cosa più importante è profilare e studiare le abitudini dei propri potenziali clienti.  

Ma anche i negozi fisici possono beneficiare dell’innovazione digitale che ha coinvolto il mondo dei pagamenti. Per loro si tratta di un’arma a doppio taglio, se non stanno al passo con i tempi rischiano di essere tagliati fuori, ma se riescono ad attrezzarsi possono fidelizzare e invogliare i clienti a spendere. Satispay è la risorsa più sfruttata per facilitare i pagamenti. L’app infatti consente di effettuare tramite smartphone pagamenti verso negozi o altri utenti, per un massimo di 200 euro a settimana. I contanti sono una specie in via di estinzione, soprattutto per alcune fasce d’età. I negozi che faticano addirittura ad attivare i pagamenti POS più tradizionali, nonostante gli esercenti siano obbligati per legge ad attrezzarsi per i pagamenti tramite bancomat, sono direi spacciati.

La direzione è quella di andare verso le operazioni meno tangibili, seppure perfettamente tracciabili. La sensazione di “aprire il portafogli” è sempre più pesante, molto più leggera è la sensazione di un click per ottenere, invece un bene tangibile in cambio. Anche in ambito Finance, a farla da vincitrice è la cosiddetta “experience” che deve essere positiva e incoraggiante, verso le prossime spese a cuor leggero!

Nei prossimi giorni però vi racconteremo i dettagli di quelli che sono i principali strumenti di digital payment analizzando al meglio pro e contro delle varie soluzioni.

Categorie
Social

Si fa presto a dire social media manager, ma Instagram è ancora tutto da scoprire!

Da quando Instagram ha stravolto il panorama social, tutti quelli nati prima degli anni ’00 si sentono dei matusa!

Si fa presto a dire social media manager. Ma prima che un professionista del settore, il social media manager deve essere uno/a sul pezzo.

Mi occupo da qualche anno ormai di social. Ma cosa vuol dire social media? Facebook? Twitter? In effetti li ho visti nascere, sono stata parte attiva, insieme a milioni di utenti, dell’evoluzione di queste piattaforme. Certamente gran parte del lavoro lo fanno gli sviluppatori e il team marketing probabilmente, decidendo questa o quella evoluzione. Ad esempio introducendo le Pagine, Facebook ha spalancato le porte all’adv, sia sponsorizzato che non.

Fin qui è storia nota, soprattutto per quelli della mia generazione, (anno di nascita 1989).
Ma ahimè, mentre io ero immersa nella consueta gestione di Facebook, Twitter, Linkedin, nasceva una nuova creatura, o meglio rinasceva. Instagram è in effetti un grande sconosciuto per noi over 25, almeno nella sua evoluzione più attuale.

Partiamo dal presupposto che in Italia le novità tecnologiche arrivano sempre leggermente in ritardo, un po’ come le voci dei nonni che ci chiamavano dai primi modelli di proto-cellulari. E quindi, Instragram per come l’ho visto nascere io era una cosa per pochi, scarna, semplice, bella, ma comunque prevedeva un uso saltuario e misurato. Era il social delle fotografi belle, o più spesso di foto qualsiasi con effetti random che rendevano luminescenti e favolosi anche le immagini del piatto di pasta condito con tonno in scatola. Il tutto rigorosamente accompagnato da improbabili hashtag come #instagood #instafood #instaepic e via dicendo (molti di questi sono tristemente ancora in voga). Ma da allora tutto il resto è cambiato. Dopo le intramontabili foto tema food sono poi arrivati gli ormai irrinunciabili selfie: correva l’anno 2010 quando l’uscita dell’iPhone 4, con la sua fotocamera anteriore, apriva la strada all’autoscatto. E oggi?

Come ogni anno anche quest’estate mi pongo un obiettivo, per tenere attivo il cervello anche sotto il sole di agosto. Quest’anno invece di prefissarmi interminabili letture ho sfidato me stessa a padroneggiare Instagram, in 15 giorni. E ho scoperto di avere delle voragini da colmare. Da utente sporadica, ho iniziato a passarci le ore, a sperimentare con il mio profilo privato, con risultati discreti, credevo… fino a che Rossella, un’amica classe 1995, un giorno me l’ha dovuto dire: sei vecchia. SILENZIO. Non sono certo frasi che si dicono a una quasi trentenne, ma l’ho lasciata parlare.

Le storie che fai sembrano quelle di mia madre se solo sapesse che esistono le Instagram stories

Infatti dovete tenere conto che ormai anche le stories hanno uno “storico”. E gli utenti hanno già deciso tendenze e regole non scritte. Un po’ come se qualcuno si iscrivesse oggi a Faceboook senza conoscerlo minimamente e spontaneamente risponderebbe alla domanda retorica “A cosa stai pensando”, proprio come facevamo noi teenager quando il social era ai suoi albori. Non ditemi che Facebook non delizia anche voi quasi ogni giorno con perle di saggezza dal passato: Sto pensando che fa caldo e vorrei tanto un gelato. Insomma, per imparare, abbiamo dovuto sbagliare. Ecco io a quanto pare faccio le storie come si facevano nella preistoria (oggi, infatti, le ere durano solo pochi mesi).

Non si usa più fare le scritte così grandi, così storte, è trash. Mi reguardisce la mia amica.
L’importanza va data al soggetto. Instagram, infatti, rimane sempre il social del bello.

I tag, quindi, vanno integrati nella foto, non sono un abbellimento, ma hanno una funzione tecnica, quella di inviare una notifica al soggetto taggato e quindi un link diretto della tua storia al suo profilo e la possibilità per il destinatario di ricondividere la stessa storia: un‘ulteriore possibilità di engagement quindi.

Ancora una volta a vincere (come in tutti i settori legati alla grafica negli ultimi dieci anni circa) è la semplicità, la pulizia. Pochi elementi, belli. Lo ha fatto proprio Instagram con un rebranding che prevede un logo molto stilizzato, molto minimal.

Per lo stesso motivo ora e luogo è meglio metterli in grigio asserisce Rossella. Le scritte tutte colorate, grandi, lasciamole agli adolescenti in cerca di identità.

Devi coinvolgere i tuoi follower. In effetti non parlare con i vostri follower, è un po’ come rimanere muti a lungo in ascensore con il tuo vicino di casa. Pubblichi una storia e vedi chiaramente le visualizzazioni aumentare e puoi leggere i nomi degli utenti che hanno visualizzato il tuo contenuto e loro sanno che tu sai. Insomma siete nella stessa stanza virtuale, ma fissate il muro senza nemmeno salutarvi. Come rimediare? Inserite sondaggi, buffi o reali che siano, all’interno delle vostre storie. O ancora meglio iniziate una diretta se avete qualcosa di interessante da dire e interagite direttamente con gli spettatori e i loro commenti. Le dirette sono una risorsa preziosa. Ogni volta che ne iniziate una, Instagram invia una notifica ai vostro follower, quindi usatele con intelligenza, fatele durare almeno il tempo necessario affinché tutti ricevano l’alert della diretta e cercate di curare un minimo l’immagine.

Soprattutto se fate marketing non potete permettervi di non avere le idee chiare, a partire dei vostri profili privati. Quella è la vostra palestra personale, date retta agli amici più giovani e abusatene con coscienza!

Categorie
Contenuti Social

Instagram: tutta un’altra storia

Nel mondo reale non ti approcceresti mai a uno sconosciuto esordendo con “Ehi, mi chiamo Tizio e vendo automobili, te ne serve una?”. O meglio: capita che qualcuno ti allunghi un volantino proprio mentre stai per perdere un treno o ti placchi nel mezzo di un centro commerciale, durante una sessione di shopping compulsivo, per illustrarti le ultime novità di quel prodotto che non avevi mai sentito nominare.

Capita, è vero. Ma nessuno oserebbe mai chiamarlo storytelling, malgrado sia una parola ormai sulla bocca di tutti.

Il volantinaggio è una chiara forma di advertising puro, anche piuttosto invadente, che infatti suscita reazioni disparate (o disperate, parlando in termini di marketing): un cenno di dissenso, l’indifferenza totale oppure un finto interesse che si traduce nell’accettare il volantino e gettarlo via quasi subito, senza averlo nemmeno letto né badato alla differenziata.

Sventolare le proprie qualità e i propri prodotti sul web non trasforma tutto questo in storytelling o, più precisamente, in branded storytelling. Cambia il mezzo ma non la modalità.

Ormai “Every company is a media company” è un concetto assodato. Grazie al web siamo tutti potenziali produttori di contenuti ma non necessariamente di “content”.

Se un’azienda parla di se stessa, raccontando magari la propria storia, non sta facendo branded storytelling ma di nuovo advertising.

Storytelling, infatti, non va tradotto letteralmente con “Raccontare storie” (che poi nel gergo italiano vuol dire pure “Raccontare balle”…), perché non si tratta di dire qualcosa ma di dare qualcosa a chi legge.

Nel 2015 e nel 2016 il Cannes Lions, uno dei premi più ambiti da chi si occupa di brand communication, non ha premiato nessuno dei candidati alla categoria Branded Content perché la maggior parte dei progetti in gara erano campagne promozionali, non prodotti editoriali che creavano valore per l’audience. C’era un solo protagonista in quelle “storie”: il prodotto. Erano tutti progetti che, anziché coinvolgerti per convincerti, puntavano a convincerti e basta.nessuno perché la maggior parte dei progetti in gara erano campagne promozionali, non prodotti editoriali che creavano valore per l’audience. C’era un solo protagonista in quelle “storie”: il prodotto. Erano tutti progetti che, anziché coinvolgerti per convincerti, puntavano a convincerti e basta.

Invece per coinvolgere il pubblico – e fare vero storytelling – un brand deve trasformarsi in una storia che si discosti da se stesso per diventare la storia di altri di cui condivide i valori.

Lo sanno bene i produttori di pneumatici più famosi al mondo, che devono gran parte della loro popolarità proprio a un prodotto editoriale: le guide gastronomiche firmate Michelin.

Pubblicazioni annuali destinate alle persone e create per le persone, dove il prodotto (le gomme) c’entrava solo indirettamente. Il punto era dare ai clienti qualcosa che potesse interessarli davvero. In poche parole: creazione e condivisione di valore (e di valori).

Poi, se la curiosità di provare i ristoranti consigliati nelle guide avesse spinto i lettori a prendere l’auto e partire (consumando i propri pneumatici o testandone magari l’inadeguatezza!), ancora meglio. Ed era probabile che, al momento di cambiare gomme, quelle persone si sarebbero rivolte proprio alla Michelin che, attraverso quel prodotto editoriale utile soprattutto a chi lo leggeva, era entrata in relazione con loro guadagnandosi anche la loro fiducia.

Se le Guide Michelin sono nate nel 1900, quando ancora la rete non ci sommergeva di presunti “contenuti”, l’idea alla base di quella strategia è più che mai attuale. E oggi non c’è storia: le Stories che fanno da padrone sono quelle pubblicate su Instagram. E non mi riferisco solo al video di tuo cugino che, mentre tu cuoci in ufficio senza aria condizionata, ti rende partecipe delle sue ferie. Parlo delle Stories dei Brand. Grandi Brand, che hanno capito di dover fare content anche sui social network, perché è lì che stanno le persone.

Forse stupisce che 1/3 delle Stories più viste provengano proprio dalle aziende (ha stupito un po’ anche me, e invece pare che le persone preferiscano quasi seguire la squadra del cuore piuttosto che l’amico). E forse stupisce ancora di più che 1 Story su 5 riceva almeno un Direct Messanger.

Allora l’Inter ci prova e se la cava abbastanza bene con le grafiche, i test e i video in cui sono proprio i calciatori a dirti quante risposte hai azzeccato.

Lo fa anche il Real Madrid e con contenuti creati ad hoc (non pensavate di caricare sulle Stories video già fatti per altri canali…) in cui gli atleti – facendo il gesto dello swipe app – diventano parte della comunità di quel media parlando la stessa lingua.

Un altro esempio? Foodbites, che nei post mostra creazioni artistiche fatte col cibo e nelle Stories come si arriva a farle, sfidando i follower a provarci.

Oggi Instagram offre ai brand la possibilità di entrare in relazione con il potenziale cliente (tantissimi potenziali clienti…) attraverso contenuti originali pensati ad hoc.

Se forse in termini di ritorno economico il branded content (web o social) si rivela efficace nel medio periodo, comunque una strategia multicanale – fatta bene – può far crescere concretamente il business di un’azienda.

Per questo noi che lavoriamo nel mondo della comunicazione stiamo sempre con le antenne sollevate (l’ultima novità di Instagram in fatto di Stories risale a pochissimo tempo fa…).

Ah lo sapevate che Facebook tiene così tanto alle Stories da aver creato un’area dove vengono inserite le campagne più interessanti della settimana? Guarda e copia? No. Guarda e lasciati ispirare.

Categorie
Tendenze

La GDPR de noartri

Questa settimana ogni utente che abbia un qualunque tipo di presenza digitale ha ricevuto decine e decine di messaggi da parte dei più svariati operatori presenti sul web che, con formule più o meno divertenti, accattivanti, rassicuranti… raccontavano che finalmente dopo anni di attesa la famosa General Data Protection Regulation è entrata in vigore.

La cosa che ho trovato più utile di tutta questa faccenda è stata l’opportunità di realizzare una mappa più o meno precisa di chi avesse la mia mail in archivio e mi sono sorpreso nel trovare siti/aziende di cui non ricordavo nemmeno l’esistenza.

Non sono certo qua a raccontarvi cosa sia la GDPR, in fin dei conti adesso su Radio24 ci sono pure le pubblicità che raccontano di straordinari software compliant alla GDPR, quello che mi piacerebbe fare oggi è un’analisi della comunicazione fatta dagli operatori su questa “delicata faccenda”.

Vi confesso che via via che ricevevo tutta queste pletora di messaggi inutili, la prima reazione è sempre stata quella di cancellarli immediatamente. Oggi invece sono rientrato nel mio fedele “cestino” e ho recuperato tutti i messaggi e li ho letti uno per uno. Esperienza unica!

Prima di tutto ho scoperto che una mia vacanza in Trentino anni e anni fa ha compromesso la mia presenza digitale. Devo aver chiesto preventivi per quel viaggio parecchi hotel e B&B della zona e da bravi altoatesini tutti questi signori a distanza di anni mi tengono ancora nel loro database e mi hanno comunicato i loro adempimenti in termini di GDPR.

La seconda considerazione è che nel periodo in cui lavoravo nel mondo delle risorse umane, ho lasciato i miei dati in decine e decine di portali di ricerca di lavoro e da loro non ho ricevuto assolutamente nulla.

Al netto di questi due piccoli aneddoti, è triste dire che dal punto di vista della comunicazione (e non parlo in termini legali su cui non voglio e non posso intervenire) praticamente tutti quelli che mi hanno scritto hanno perso l’occasione per tenere la bocca chiusa.

Prendo spunto da una grandissima testata editoriale: “coerentemente con l’impegno di XXXXXX (di seguito “XXX”) a offrire i migliori servizi ai propri lettori, abbiamo modificato alcune delle nostre politiche per rispondere ai requisiti del nuovo Regolamento Europeo per la Protezione dei Dati Personali (GDPR). In particolare abbiamo aggiornato la Privacy Policy e la Cookie Policy…”

Poi, dopo una lunga descrizione su quanto è stato pensato, ideato e fatto, con cura e nel totale interesse dell’utente e del suo diritto alla privacy, il messaggio chiude con una straordinaria affermazione:

Abbiamo condotto un’accurata indagine sui consensi che i nostri utenti hanno prestato, riscontrando la loro rispondenza ai principi del GDPR. Pertanto, consideriamo i consensi che ci hai fornito in precedenza come validi anche alla luce della nuova normativa e noi continueremo a trattare i tuoi dati personali e tu a usufruire dei prodotti e dei servizi senza necessità di dover fare alcunché.”

STRAORDINARIO! Veramente straordinario.

Io non sto parlando di legge, di regolamenti, di cose da fare o da non fare. Sto parlando di comunicazione. Mi hai detto che hai studiato, hai pianificato, hai agito, hai realizzato… poi alla fine proprio sugli ultimi 200 metri della lunga maratona, hai fatto “un’accurata indagine” e ti sei accorto che continuerai a trattare i dati senza necessità di dover fare alcunché.

Mah …

La più bella comunicazione l’ho invece ricevuta da Cristian Galletti di Webgriffe che in maniera molto piacevole e divertente ha scherzato su questo obbligo di legge (obbligo?) e dopo una serie di esilaranti prese in giro su questo tema ha chiuso con un “Ora un ultimo sforzo… lo sappiamo che non ce la fai più, ma cliccando sul pulsante sottostante potrai leggere la nostra nuova e “accattivante” informativa sulla privacy: ti consigliamo la lettura se in particolare hai problemi di sonno!”

Ecco, come vedete con un po’ di cervello si riesce a comunicare anche una cosa noiosa come la GDPR in maniera accattivante e distinguendoti dalla massa.

Anche se devi comunicare qualcosa di spiacevole, comunicare non vuol dire mettere una parola dietro l’altra e basta!

Quasi quasi copio anch’io la comunicazione e mando pure io qualcosa di irriverente, anche se non ho capito ancora se devo mandarlo al database che ho in azienda, sul telefonino, su LinkedIn, su Facebook, sulla mail (quale mail?)… va beh adesso ci penserò su…

Ah, p.s. ma qualcuno ha ricevuto uno stralcio di comunicazione sulla GDPR da parte di un ente statale? Ma l’Ospedale Niguarda (giusto per prendere l’ultimo dove sono andato a passare qualche giorno di piacevole relax) in cui i miei dati sono a disposizione di tutti gli operatori sanitari è GDPR Compliant?

Categorie
Social Strategia

Tempi duri per Facebook? Ma non diciamo stupidaggini…

Oggi è facile sparare su Facebook!

Qualche settimana fa mi auguravo che Zuckerberg intervenisse sulla sua piattaforma prima che il Governo Federale lo facesse a tutela della famosa “sicurezza nazionale”. L’analisi di Wired US era implacabile nell’evidenziare come Facebook, se usato al meglio delle potenzialità (community aggregator & news feeder), oggi sia lo strumento perfetto per piegare la realtà e mettere a repentaglio alcune basi della democrazia moderna come noi la conosciamo.

Beh, non abbiamo dovuto attendere molto per vedere una vera e propria gogna mediatica catapultarsi su Facebook in tutto il mondo.

Oggi, leggendo i vari newsfeed, ho letto l’intervento sull’AGI di Arcangelo Rociola in cui il giornalista cavalca l’onda mediatica sfruttando anche il tweet irriverente di Mr Whatsapp, Brian Acton, che dall’alto dei suoi 10 miliardi di dollari ricevuti da Facebook, oggi si può divertire a proclamare a tutto il mondo “It is time. #deletefacebook”.

Chissà se il nostro amico Brian avrebbe lanciato questo tweet nelle fasi calde della trattativa che lo hanno reso miliardario o forse sarebbe stato più cauto nel chiedere la cancellazione di Facebook, almeno fino all’arrivo dell’ultimo bonifico sul suo conto corrente?

Quello che veramente mi sorprende oggi, e che mi sorprende fino a un certo punto, è la capacità di tutti di soffiare l’onda mediatica. Fino a ieri tutti schiavi di Facebook, se non eri su Facebook eri uno “strano”, e oggi tutti a chiedersi “cosa si potrebbe fare senza la dipendenza da Facebook”. Techcrunch ci racconta addirittura che “Facebook ci sta usando. Sta di proposito prendendo le nostre informazioni. Sta creando delle echo chamber nel nome della connessione. Fa emergere le divisioni e distrugge le vere ragioni che ci hanno portati all’uso dei social media: (distrugge) le relazioni umane. È un cancro”. Ma davvero? Non ve ne eravate accorti prima?

Tutti oggi urlano indignati che non è giusto che Facebook abbia venduto i dati a Cambridge Analytica. Oggi tutti vorrebbero la punizione esemplare per “Marco Montedizucchero” che è stato cattivo e ha fatto i soldi rubando le informazioni che le persone ingenuamente avevano inserito nella scatola di Facebook.

Ma l’avete letta la pagina di log in di Facebook? Se fosse sfuggito a qualcuno, c’è scritto “Iscriviti. È gratis e lo sarà sempre”. Gratis. Qualcuno ha veramente pensato che tutto quel giochino fosse sul serio gratis? Che la possibilità di archiviare tutta la propria vita, video, foto, pensieri, commenti, emozioni, amore, odio, parole… fosse tutto gratis?

L’altro giorno mia figlia, guardando una serie tv in streaming, a un certo punto mi ha stupito: non capiva perché continuassero a comparire popup a infastidirla mentre guardava gratuitamente un programma televisivo su internet (fruibile a pagamento alla televisione?). Ma davvero tutti abbiamo pensato che il “gratis per sempre” volesse semplicemente dire che non ci fossero interessi economici dietro? Che Facebook fosse un’enorme realtà filantropica interessata al bene del mondo e che volesse regalare nuove opportunità a persone che si erano perse nel tempo? Pensavamo veramente che Instagram fosse un enorme album fotografico dove l’utente nutre il proprio ego inserendo immagini il cui interesse è spesso limitato a pochissime persone?

Mi spiace andare sempre controcorrente ma penso che tutto questo odio mostrato oggi dalla gente nei confronti di Facebook sia assolutamente insensato e illogico. Conosciamo tutti aziende che hanno chiuso la propria presenza digitale per spostarsi sui social, conosciamo tutti persone che parlano agli amici a tavola tramite Whatsapp e post su Facebook, conosciamo tutti persone che non sanno trovare neanche la strada di casa e utilizzano Maps per non perdersi mai… ah no, scusate, Maps non è di Facebook ma è sempre gratis.

Ma veramente qualcuno pensa che possa esistere una struttura come Facebook completamente gratuita?

Al contrario di come la pensa Rociola e l’AGI, “…il monopolio della vita digitale di 2,3 miliardi di utenti nel mondo comincia a preoccupare… se il costo di un servizio è gratuito, il costo di quel servizio sono i tuoi dati. La tua privacy. Le tue opinioni. E il tuo voto, come nel caso delle campagne elettorali di Cambridge Analytica”, io credo che quello di cui dovremmo preoccuparci sia un’altra cosa: se Facebook chiudesse domani e dopodomani chiudesse Google, tutti torneremmo in una preistoria di comunicazione imbarazzante.

Senza Facebook le aziende non saprebbero come parlare con i propri clienti, senza Facebook le persone non saprebbero cosa succede attorno a loro, senza Facebook le persone non riuscirebbero a sapere quello che succede nel mondo, senza Facebook i giornali non saprebbero come rintracciare lettori. Se domani Mark Zuckerberg decidesse che ha fallito la sua missione e spegnesse i suoi server, saremmo tutti più liberi ma anche più poveri.

Senza Facebook dove andremmo a mettere le foto, i video, i  ricordi, i pensieri, le opinioni e le notizie? Come immaginate il vostro domani senza Instagram, Facebook e Whatsapp?

Brian Acton, con i suoi 10 miliardi dollari, può tranquillamente decidere di #cancellarefacebook. Tutti noi, invece?

P.S. ah, un’ultima cosa. Non è che Facebook mi stia simpatico o altro. Abbiamo provato a fare una campagna sul precedente articolo e Facebook ha respinto la campagna come “inappropriata”. Non sono simpatici, non sanno fare autocritica, ma per favore cerchiamo di ragionare!

Categorie
Social Web

Google sorpassa Facebook, con il tifo della stampa

Qualche giorno fa, in uno dei tanti gruppi di discussione mi sono trovato di fronte a un commento in merito alla “stampa”, da parte di un imprenditore abbastanza importante, che mi ha lasciato sorpreso: “Quello lì è un giornalista: trattatelo bene perché ha in mano l’informazione e l’informazione, si sa, è potere”.

Nelle scorse settimane abbiamo anche parlato di come Facebook stia passando un periodo complesso, tra l’accusa di essere il principale diffusore di fake news nel mondo e alcune nuove ricostruzioni sui motivi del cambio di algoritmo effettuato da Zuckerberg negli ultimi mesi. Inutile dire che le ricostruzioni provengono dal mondo della stampa ed è ormai abbastanza risaputo che tra Facebook e la stampa non corra assolutamente buon sangue.

La stampa, infatti, accusa da mesi la piattaforma social più conosciuta al mondo di essere propagatore di una “verità” differente da quella che da sempre i media classici hanno raccontato al proprio pubblico. L’avvento del social, e quindi l’aver dato a tutti gli utenti il potere di dire la loro con lo stesso grado di “voice”, ha probabilmente creato la bolla di speculazione comunicativa che ci ha raccontato Wired nel suo articolo.

Tutto vero? Probabilmente sì, ma d’altra parte – come abbiamo già detto – Facebook, se usato al massimo delle sue potenzialità di community aggregator & news feeder, ha le carte in regola per diventare un vero e proprio crack in grado di creare e distribuire uno stream di comunicazione differente da quello “ufficiale”.

Ma la terza legge della dinamica ci insegna che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. La decisione che il nuovo goal è “time we all spend on Facebook is time well spent” non è passata del tutto inosservata, e pare non solo nei confronti del mondo dell’informazione.

A quanto pare, anche per Facebook “piove sul bagnato” e dalle ultime statistiche sembra che negli ultimi mesi ci sia stato un sorpasso che ha dell’incredibile.

Google ha infatti rimpiazzato Facebook come top referrer per i publisher.

L’infografica apparsa qualche giorno fa su Statista.com ci mostra come a partire dal 3° trimestre 2017 Google abbia sopravanzato Facebook sia a livello di desktop (e questo lo sapevamo già tutti) sia a livello di mobile, come fonte principale per portare traffico all’interno delle piattaforme di informazione mondiale!

Incredibile.

Facebook Mobile sta velocemente precipitando verso una paradossale disfatta (-32%) nei confronti di Google proprio in una delle aree su cui Zuckerberg aveva maggiormente puntato come driver di affermazione di FB come piattaforma di comunicazione globale: l’informazione.

Sicuramente Facebook non si è fatto molti amici nel mondo dell’informazione globale negli ultimi anni ma pochi potevano prospettare una disfatta di tali dimensioni anche soltanto sei mesi fa (periodo in cui secondo l’infografica di Statista, il sorpasso era già avvenuto). Una disfatta la cui provenienza non deriva dal mondo dell’informazione ma è sancita dagli utenti stessi.

Le statistiche sono come i bikini. Ciò che rivelano è suggestivo, ma ciò che nascondono è più importante, diceva Irving R. Levine, ma in questo caso i numeri ci dicono che dopo essere stata messo al bando dal mondo dell’informazione, anche gli utenti hanno deciso che Facebook non sia più la fonte maggiormente rilevante per trovare nuove notizie all’interno del panorama digitale. Google invece oggi ha oltre il doppio dei click da parte degli utenti verso le principali piattaforme di informazione globale. A quanto pare il “time well spent” non prevede da parte degli utenti la fruizione di contenuti informativi!

Un tradimento da parte dei publisher ci stava ma quello da parte degli utenti, credo che Zuckerberg proprio non se l’aspettasse.

I tecnici oggi parlano delle importanti migliorie che gli Accelerated Mobile Pages di Google possono avere avuto in questa bruciante sconfitta da parte di Facebook ma sinceramente credo che tutti leggendo queste parole possano solamente sentire il rumore di unghie sul vetro!

Facebook ha perso il suo forward momentum non solo nei confronti del mondo dei diversi establishment, ma anche e soprattutto nei confronti dei suoi utenti. Quei miliardi di utenti che ne hanno deciso fino ad oggi la crescita e la sua incredibile fortuna, iniziano a guardarsi attorno alla ricerca di nuove fonti di “ispirazione” e “informazione”.

Come già successo per Apple, anche Facebook è stata risucchiata dal gruppo degli inseguitori? L’azienda che doveva cambiare il mondo del web, è stata cambiata dal web?

Categorie
Contenuti Web

Il sito brochure e il sito vetrina

Cinque domande da farsi per non sprecare soldi nel sito

In questi mesi abbiamo studiato numerosi siti internet di aziende piccole, medie e anche grandi che operano in tutte le tipologie di settori. Abbiamo guardato aziende di servizi, aziende di prodotto, aziende di settori alla moda e aziende che producevano beni assolutamente poco affascinanti e “notiziabili”.

Tutte le aziende che abbiamo analizzato hanno tutte una cosa simile: business assolutamente consolidati e fatturati molto elevati (le abbiamo selezionate anche guardando questi aspetti negli ultimi anni).

C’è qualcosa di sorprendente che accomuna la maggior parte di queste aziende: hanno una presenza digitale poco valida. Drammaticamente scarsa in molti casi.

Non sto dicendo che i loro siano dei siti brutti o poco funzionali. Sì, molti siti spesso non sono in linea con gli standard di Google. Una percentuale elevata è costituita da siti oggettivamente poco fruibili e spesso questi hanno delle grafiche veramente antiquate e poco piacevoli.

Quello che però ci ha veramente stupiti è un aspetto meno tecnico e meno estetico, ma abbastanza incredibile:

i siti che abbiamo studiato non servono allo sviluppo del business

Al di là della grafica, del sistema di gestione dei contenuti, della realizzazione dei contenuti stessi, delle immagini e dei testi da utilizzare ogni volta che si crea un sito per un’azienda o per un professionista bisognerebbe rispondere a questi fondamentali cinque set di domande:

1) Il tuo sito crea specifici risultati di business? I risultati sono misurabili? Hai un sistema per collegare lo sviluppo del business al tuo sito?

2) Il tuo sito è realizzato come se fosse il più avanzato ed efficiente strumento di vendita dei tuoi servizi e dei tuoi prodotti? Da ogni parte del tuo sito è chiaro e facile raggiungere la sezione di sviluppo del tuo business?

3) Il tuo sito riesce a creare un flusso consistente di nuove conversioni per il tuo business (lead, registrazioni, vendite)? Il tuo commerciale è in grado di interagire con il tuo sito per poter interagire a sua volta con il tuo business?

4) I contenuti e le risorse che pubblichi nel tuo sito sono utili e significativi per il tuo target e il tuo potenziale acquirente?

5) Hai realizzato un piano di marketing digitale finalizzato alla realizzazione di un processo di vendita adeguato all’incremento del tuo business?

Spesso quando si fa un sito si pensa a realizzare una brochure online senza però ricordarsi che la brochure viene spiegata e consegnata da un commerciale.

Se una brochure di 16 pagine viene presentata in una visita di 30 minuti o una presentazione aziendale viene seguita o anticipata da una telefonata di vendita di decine di minuti, perché le aziende decidono di non investire nel commerciale nel mondo del web?

Essere digitali non significa essere in grado di sopperire alle competenze di altri. Il vostro cliente non può prendersi la responsabilità di fare il commerciale a se stesso.

Il ruolo fondamentale di spiegazione dei perché comprare, di cosa comprare, di come comprare, di quando e dove comprare non possono essere demandati al cliente stesso.

Se si realizza un sito-brochure si deve realizzare anche un sito-venditore.
Se si crea un sito-vetrina ci si deve dotare anche di un sito-commessa.

Un sito che spieghi nei dettagli cosa l’azienda vende, racconti nel dettaglio i vantaggi dei prodotti/servizi offerti, informi sulle modalità di vendita ma soprattutto provi a convincere il cliente che il prodotto/servizio offerto è in grado di risolvere il suo problema.

Una brochure senza venditori, un negozio senza commessi, un sito senza area commerciale … ecco cos’è un sito non funzionale: un’occasione mancata di realizzare nuovo business per l’azienda.

 

Credits photo: Pexles, Flickr

Categorie
Social Strategia

Sponsorizzate? Pagare i click non ha mai funzionato

Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che piazzare un budget, anche alto, sulle sponsorizzate non basta più, forse non è mai bastato e comunque non dà i frutti sperati.

Perché?

Perché il social network, lo abbiamo detto in precedenza, è il luogo della condivisione in senso romantico. Il luogo per eccellenza del marketing emozionale, e di emozionale la sponsorizzata non ha proprio nulla. Soprattutto perché si vede.

Partiamo da una diffidenza di base dell’utente di fronte agli Adwords & co. Talvolta addirittura per principio, l’utente scansa il contenuto pubblicizzato in favore di quello organico, recepito come genuino.

Come se ci fosse del marcio nel pagare la visibilità, almeno in un mondo in cui possono averla tutti, puntando sulla qualità dei contenuti. Certo, nessuno dice che sia semplice. Messa così sembra addirittura meglio, pagare non serve… quindi la visibilità è gratis? Magari!

Innanzitutto è anche sbagliato sostenere che sponsorizzare le proprie pagine aziendali sia del tutto inutile. Va fatto nel modo e nei tempi giusti.

Inutile puntare solo sulle sponsorizzate per un business nascente e quindi sconosciuto.

Una visualizzazione di per sé non ha un grosso valore. O meglio: nel caso di un brand sconosciuto, ha un costo maggiore del beneficio che porta. Probabilmente non porterà ad alcuna interazione e sarà quindi infruttuoso poiché non aumenterà la credibilità recepita dell’azienda. Come giudicate quei desolanti post con 0 commenti e 0 reazioni che sono solo una becera esecuzione di un calendario editoriale sistematico e mal gestito? Tutti li giudichiamo per quello che sono: tristi.

Quindi dove è meglio spendere i soldi prima che per le sponsorizzate?

Bisogna partire da metodi, per così dire, tradizionali. Creare una base solida di reputation sul campo: investire sul content e avere clienti così soddisfatti da farci da ambassador.

Non ve la siete scampata dunque, i soldi vanno investiti e non le poche centinaia di euro delle sponsorizzate, ma ben di più. Soldi e tempo, perché i risultati non piovono dal cielo così come i click.

La SEO content creation costa cara, se fatta bene. Bisogna affidarsi a persone competenti e affezionate al progetto. Se fatta in modo approssimativo e mediocre, tanto vale non farla, perché ritorneremmo al desolante quadro 0 condivisioni 0 reazioni.

Il passaparola, croce e delizia di ogni azienda, nemmeno quello è gratuito. Bisogna prendersi particolare cura dei primi clienti (senza trattar male quelli a venire, per carità), ma consapevoli del fatto che quel di più che si “regala” ai primi lavori (in termini di follow-up e customer-care) sia anche un investimento pubblicitario, e non un’inutile spesa.

Solo creati i presupposti vale la pena mettere in budget la voce per sponsorizzate & Adwords, e ancora la strada sarà lunga per convertire i click ottenuti.
Dapprima sarà il caso di mettere nel target gli attuali clienti e simpatizzanti. Inutile? Direi di no, solo così i simpatici algoritmi che regolano la rete capiranno che siete affidabili, stimati e condivisi, abbassando il costo delle visualizzazioni che vorrete ottenere. Solo allora avrà senso allargare il target, poco alla volta e in maniera molto accurata, per evitare di fare passi indietro.

Non ci si improvvisa social media manager, eppure nessuno saprà davvero insegnarvelo. Perché i social media cambiano ogni giorno e hanno una storia troppo breve per essere chiamata tale. Ascoltate i consigli che vi sembrano più sensati e sperimentate, passateci le ore sulle piattaforme che volete sfruttare. Come pensate di poter giocare a calcio leggendo un manuale e senza aver mai toccato un pallone? Iniziate a palleggiare al parchetto e poi fate il vostro esordio sul campo vero. Giocando e sbagliando, si impara.

Categorie
Social Tendenze

Zuckerberg preso a schiaffi dai suoi ex dipendenti: Facebook gli è sfuggito di mano?

Il 12 febbraio è uscita su Wired USA un’inchiesta che mette sotto accusa il colosso Facebook e in particolare la gestione degli ultimi due anni da parte del suo creatore, Zuckerberg. Oltre 60.000 battute che picchiano duro sul volto dell’inventore del social network più diffuso al mondo, tanto che la copertina del magazine rappresenta proprio Zuckerberg con il volto tumefatto.

L’articolo raccoglie una serie di interviste rilasciate da dipendenti ed ex-dipendenti della compagnia. Secondo alcuni di loro, Facebook avrebbe “toppato” negli ultimi due anni, peccando di ingenuità, nel migliore dei casi, e di faziosità nel peggiore.

Innanzitutto va ricordato che Facebook nasce nientepopodimeno che ad Harward per mettere in contatto gli studenti tra loro. Studiato quindi per uno user di altissimo profilo culturale, non poteva prevedere una diffusione tale e una così variegata amalgama di utenti. Veniva creato con lo slogan “Facebook aiuta a connetterti e rimanere in contatto con le persone della tua vita”. Queste le premesse.
I primi di noi che si sono iscritti qui in Italia, ormai una decina di anni fa, probabilmente ricordano la diversa natura del mezzo. Si accedeva al sito per scrivere “ciao” sulla bacheca di un amico in Erasmus e poco più. Man mano che gli iscritti crescevano, e con loro le potenzialità del mezzo, sicuramente le cose cambiavano. Tanto che ora ci facciamo delle grasse risate a rileggere ciò che ci ripropone l’apprezzatissima funzione “accadde oggi”.

Oggi Facebook è molto meno “buffo” e personale (non meno ridicolo a volte) ma è diventato una faccenda seria. Così seria da essere difficilmente gestibile per il giovane ex studente di Harward che fatica a comprenderne non tanto le potenzialità, quanto le ombre.
C’è chi lo vede come tutt’altro che ingenuo, il ragazzo. A me pare che la sua idea originaria fosse invece molto romantica e che con l’andare degli anni abbia perso il controllo della macchina, forse anche giustamente distratto da una vita privata che lo ha assorbito, in parte, dalla maniacale richiesta di attenzione che richiede uno strumento del genere.

I primi problemi sono iniziati quando Twitter ha preso a dare fastidio e Facebook, per sovrastarlo, ha lasciato più spazio alle news. Ma Facebook non è Twitter. Privato e pubblico, oggettivo e soggettivo si mischiano vorticosamente, facendo venire nausea e confusione a chiunque. Zuckerberg allora costituisce una squadra per gestire i trending topic, perché non siano governati solo da un algoritmo ma “guidati” da giornalisti veri. Risultato: viene accusato di favorire le notizie pro-democratici e, da buon idealista qual è, questa cosa lo fa incazzare.

In effetti il ragazzo è uno che tiene alla parità dei diritti uomo/donna, che promuove la pace e combatte le differenze. Uno così non avrebbe certo votato Donald Trump.
Eppure pare proprio che sia vero il contrario, che Facebook abbia giocato un ruolo chiave (e inconsapevole) nell’ascesa del tycoon al potere, grazie alle numerose fake news che hanno invaso Facebook durante la campagna elettorale americana, sfavorendo la concorrente Hillary Clinton.
Immaginatevi come potesse reagire un ragazzo poco più che trentenne, accusato di aver cambiato le sorti del Paese e forse del mondo. Ha certamente avuto paura.
Così paura che voleva lavarsene le mani. “Se gli editori vogliono andarsene da Facebook, che se ne vadano”, ha più volte dichiarato. Ma poi ha inserito sulla piattaforma USA il primo strumento di fact-checking. Insomma non sapeva più che pesci pigliare.

Nel 2018 la grande rivoluzione: il cambio di algoritmo… un ritorno al passato, lo ha chiamato. Siamo tornati al romanticismo harwardiano del Zuckerberg ventenne. Io ci credo che voglia tornare ai bacini in bacheca mandati ai cugini in argentina. “Vogliamo assicurarci che i nostri prodotti non siano solo divertenti, ma buoni per la gente”. Più qualità, più amore cosmico e magari meno condanne morali e responsabilità. Nonostante la diffidenza dei mercati, nonostante il rischio di perdita di investitori. Mark va avanti come un treno, come sempre. Speriamo un briciolo più consapevolmente, questa volta, del potere della macchina che pilota.

Se poi per una volta preferisce la qualità alla quantità, non possiamo biasimarlo, è quello che cerchiamo di fare anche noi. Nel lavoro, come nei social.

PS: spero che Mark intervenga sulla sua piattaforma prima che il Governo Federale lo faccia a tutela della famosa “sicurezza nazionale”. L’analisi di Wired US è implacabile nell’evidenziare come Facebook, se usato al meglio delle potenzialità (community aggregator & news feeder), oggi sia lo strumento perfetto per piegare la realtà e mettere a repentaglio alcune basi della democrazia moderna come noi la conosciamo. L’alert da parte dei Servizi Segreti italiani sulle prossime elezioni non sono quindi solo una boutade. Se sai usare bene Facebook, riesci a farti eleggere o a non far eleggere il tuo avversario?

Qui l’articolo originale

Categorie
Contenuti Social Strategia Tendenze

Come si gestisce l’Instant communication di un evento?

Venerdì 13 ottobre si è svolta la settima edizione dell’E-Commerce Day presso il Mirafiori Motor Village di casa FCA a Torino. Villa Consulting era presente per occuparsi di tutta l’instant communication dell’evento.

Ma come si gestisce il live posting in questi casi?

Seguire un evento e gestirne la comunicazione live non è una cosa che si improvvisa con uno smartphone tra una chat e l’altra. Come ogni cosa fatta in ottica business, va fatta con metodo e professionalità. Il perché lo si fa, lo ha spiegato molto bene il mio socio Alessandro Chiavacci che sarà con me venerdì. Già, una persona non basta per gestire la comunicazione di un intero evento di questo tipo.

La preparazione inizia appena viene annunciato il programma con gli orari degli speech:

Step n.1

Si scarica l’elenco dei relatori e si dà un’occhiata alla loro digital presence sui social. Preferibilmente si selezionano gli account aziendali e le pagine pubbliche dei soggetti, ma se il profilo personale ha un taglio professionale, si prende in considerazione anche quello.

Step n.2

In una tabella si raccolgono tutti gli account presi durante lo step 1 e si creano così i tag per i nostri live post.

Step n.3

Si crea una lista di tag utili da utilizzare nella concitazione del live tweeting. Si parte da quello ufficiale dell’evento fino a quelli argomento dei dibattiti (visibili dal programma).

Step n.4

Per Twitter ci creiamo un bella scrivania ad hoc per l’evento. Con Tweetdeck, infatti, possiamo gestire più profili contemporaneamente, seguire l’hashtag dell’evento e i dibattiti intorno all’argomento, monitorare i profili dei relatori e degli altri partecipanti per tenere d’occhio i tweet da ritwittare. Sempre con quest’App potete gestire la programmazione dei tweet. Ad esempio il primo “cinguettio” di ogni relatore può essere il titolo dello speech, accompagnato dagli hashtag dell’evento e dai tag relativi a chi parla. Come vedete, anche il live posting può essere almeno in parte pianificato.

Finite le operazioni più tecniche non resta che decidere quanto essere Push con la frequenza dei post. Per Facebook è sempre meglio andarci piano. Essendo una piattaforma dalla vocazione più emozionale che business è consigliabile accompagnare un messaggio significativo con una testimonianza video o una bella foto o grafica. E non andare mai oltre i 2 o 3 post all’ora, pena la perdita di follower! Con Twitter invece potete strafare e raccontare fedelmente ogni passo dell’evento. Le citazioni sono i tweet perfetti, ma anche un breve commento può arricchire il vostro lavoro. Per Instagram, se non riuscite a fare delle foto valide, potete mettere una pezza utilizzando una bella grafica per inserire le quote degli speaker, una a relatore può andare bene. Ovviamente gli scatti dei relatori più importanti sono sempre d’obbligo, per non parlare delle foto del ricco buffet finale: quelle mettono d’accordo tutti!