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Strategia

Il carrello abbandonato e la marketing automation

Marketing automation contro l’abbandono estivo (e non) dei carrelli.

Le ultime settimane prima della pausa estiva sono sempre difficili per chi lavora in comunicazione. Ma a volte nonostante la voglia di staccare la testa, si trova qualche sorpresa.

Vi voglio raccontare la “casuale” richiesta che è emersa da parte un importante produttore nel settore enogastronomico che ha imparato negli anni a differenziare la propria produzione tra vino e alimenti di nicchia IGP e che vede nel mondo intero il suo mercato potenziale.

Consapevole delle potenzialità del mondo digitale l’azienda negli anni ha deciso di portare il proprio brand dal mondo analogico (fiere, presentazioni, brochure …) a quello digitale, con un sito vetrina che desse lustro alla “nobiltà” del processo produttivo e selettivo dei prodotti e poi con il fatidico “salto verso il mercato“, prima su marketplace terzi e poi direttamente sul sito di commercio elettronico.

Fino a quando il “cliente” operava su marketplace terzi, tutto sembrava andare bene, nessun intralcio se non qualche inceppo dal lato logistico. Il cliente pareva soddisfatto! L’e-commerce ha detto ben altro, facendo emergere il fenomeno del “carrello abbandonato”.

Lì per lì, il cliente non ci ha fatto caso a tutti quegli utenti che arrivavano ad un passo dall’acquisto e poi quando erano pronti in cassa per pagare improvvisamente uscivano dal “negozio” virtuale abbandonando tutto e tutti.

Un caso ci può stare, due casi ci possono stare ma quando i carrelli iniziano ad essere decine e ci si accorge che spesso ci sono serie di abbandoni di carrelli da parte dello stesso utente più volte, allora bisogna farsi delle domande. Il “cliente” ha chiamato l’agenzia che aveva progettato il sito e hanno lavorato duramente per migliorare l’esperienza del cliente ma … a questo punto il “carrello abbandonato” era diventato un tarlo del cliente

E a quel punto siamo arrivati noi, nel mezzo di una torrida giornata di luglio!

Chiacchierando con il “cliente” è venuto fuori questo tarlo e chiedendo quanti utenti avesse il suo ecommerce, quanti carrelli finalizzati avesse e il numero di carrelli abbandonati abbiamo chiesto …

“E perché non hai mai pensato alla marketing automation?”.

(Punto interrogativo che è rimasto sospeso sul tavolo un paio di secondi di troppo.)

Beh si dai, quel sistema di flussi che permette all’azienda che vende di iniziare a mandare email di richiamo, di sollecito, di ricordo, di invito. insomma una serie di mail differenti ai propri utenti in base ad una serie di “triggers”, attivatori di evento ..

Di fronte alla faccia interessata ma assolutamente ignara del cliente, ci siamo messi a spiegare come oggi, senza spendere valanghe di soldi in sistemi di marketing automation super strutturati, si possono creare flussi di comunicazioni automatiche facendo dialogare banalmente il sistema di ecommerce e un sistema di mail marketing.

sai, in base al comportamento dell’utente è possibile mandare una comunicazione (informativa, commerciale o di ringraziamento)  ai tuoi utenti che hanno fatto e/o non fatto una determinata azione nel sito. Non solo ma oggi puoi anche creare flussi che definiscono gli invii anche su base temporale: dopo 24 ore da questo evento mandi la mail T2, dopo 48 ore se è successo anche l’evento “A” mandi la mail T3A …“.

“OK! Sembra tutto molto complicato e astruso ma ti posso assicurare che è molto più complesso da descrivere che da realizzare e organizzare. Basta un po’ di testa, che tu ci spieghi come si comportano normalmente i tuoi clienti e il nostro programmatore che faccia dialogare un po’ di informazioni prese dal tuo sito al sistema di mail marketing.”

Va beh non vi tedio con i dettagli di quello che abbiamo fatto ma vi posso solo dire che dopo 45 giorni di flussi attivi non abbiamo più carrelli abbandonati ripetuti e per ogni utente che “si azzarda” ad abbandonare il carrello da qualche parte all’interno di quel negozio virtuale, oggi abbiamo una serie di cortesissime commesse virtuali che lo inseguono per tutto il negozio e provano a convincerlo a riprendersi il suo carrello e andare alla cassa!

Venghino siori venghino.

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Contenuti Social

Instagram: tutta un’altra storia

Nel mondo reale non ti approcceresti mai a uno sconosciuto esordendo con “Ehi, mi chiamo Tizio e vendo automobili, te ne serve una?”. O meglio: capita che qualcuno ti allunghi un volantino proprio mentre stai per perdere un treno o ti placchi nel mezzo di un centro commerciale, durante una sessione di shopping compulsivo, per illustrarti le ultime novità di quel prodotto che non avevi mai sentito nominare.

Capita, è vero. Ma nessuno oserebbe mai chiamarlo storytelling, malgrado sia una parola ormai sulla bocca di tutti.

Il volantinaggio è una chiara forma di advertising puro, anche piuttosto invadente, che infatti suscita reazioni disparate (o disperate, parlando in termini di marketing): un cenno di dissenso, l’indifferenza totale oppure un finto interesse che si traduce nell’accettare il volantino e gettarlo via quasi subito, senza averlo nemmeno letto né badato alla differenziata.

Sventolare le proprie qualità e i propri prodotti sul web non trasforma tutto questo in storytelling o, più precisamente, in branded storytelling. Cambia il mezzo ma non la modalità.

Ormai “Every company is a media company” è un concetto assodato. Grazie al web siamo tutti potenziali produttori di contenuti ma non necessariamente di “content”.

Se un’azienda parla di se stessa, raccontando magari la propria storia, non sta facendo branded storytelling ma di nuovo advertising.

Storytelling, infatti, non va tradotto letteralmente con “Raccontare storie” (che poi nel gergo italiano vuol dire pure “Raccontare balle”…), perché non si tratta di dire qualcosa ma di dare qualcosa a chi legge.

Nel 2015 e nel 2016 il Cannes Lions, uno dei premi più ambiti da chi si occupa di brand communication, non ha premiato nessuno dei candidati alla categoria Branded Content perché la maggior parte dei progetti in gara erano campagne promozionali, non prodotti editoriali che creavano valore per l’audience. C’era un solo protagonista in quelle “storie”: il prodotto. Erano tutti progetti che, anziché coinvolgerti per convincerti, puntavano a convincerti e basta.nessuno perché la maggior parte dei progetti in gara erano campagne promozionali, non prodotti editoriali che creavano valore per l’audience. C’era un solo protagonista in quelle “storie”: il prodotto. Erano tutti progetti che, anziché coinvolgerti per convincerti, puntavano a convincerti e basta.

Invece per coinvolgere il pubblico – e fare vero storytelling – un brand deve trasformarsi in una storia che si discosti da se stesso per diventare la storia di altri di cui condivide i valori.

Lo sanno bene i produttori di pneumatici più famosi al mondo, che devono gran parte della loro popolarità proprio a un prodotto editoriale: le guide gastronomiche firmate Michelin.

Pubblicazioni annuali destinate alle persone e create per le persone, dove il prodotto (le gomme) c’entrava solo indirettamente. Il punto era dare ai clienti qualcosa che potesse interessarli davvero. In poche parole: creazione e condivisione di valore (e di valori).

Poi, se la curiosità di provare i ristoranti consigliati nelle guide avesse spinto i lettori a prendere l’auto e partire (consumando i propri pneumatici o testandone magari l’inadeguatezza!), ancora meglio. Ed era probabile che, al momento di cambiare gomme, quelle persone si sarebbero rivolte proprio alla Michelin che, attraverso quel prodotto editoriale utile soprattutto a chi lo leggeva, era entrata in relazione con loro guadagnandosi anche la loro fiducia.

Se le Guide Michelin sono nate nel 1900, quando ancora la rete non ci sommergeva di presunti “contenuti”, l’idea alla base di quella strategia è più che mai attuale. E oggi non c’è storia: le Stories che fanno da padrone sono quelle pubblicate su Instagram. E non mi riferisco solo al video di tuo cugino che, mentre tu cuoci in ufficio senza aria condizionata, ti rende partecipe delle sue ferie. Parlo delle Stories dei Brand. Grandi Brand, che hanno capito di dover fare content anche sui social network, perché è lì che stanno le persone.

Forse stupisce che 1/3 delle Stories più viste provengano proprio dalle aziende (ha stupito un po’ anche me, e invece pare che le persone preferiscano quasi seguire la squadra del cuore piuttosto che l’amico). E forse stupisce ancora di più che 1 Story su 5 riceva almeno un Direct Messanger.

Allora l’Inter ci prova e se la cava abbastanza bene con le grafiche, i test e i video in cui sono proprio i calciatori a dirti quante risposte hai azzeccato.

Lo fa anche il Real Madrid e con contenuti creati ad hoc (non pensavate di caricare sulle Stories video già fatti per altri canali…) in cui gli atleti – facendo il gesto dello swipe app – diventano parte della comunità di quel media parlando la stessa lingua.

Un altro esempio? Foodbites, che nei post mostra creazioni artistiche fatte col cibo e nelle Stories come si arriva a farle, sfidando i follower a provarci.

Oggi Instagram offre ai brand la possibilità di entrare in relazione con il potenziale cliente (tantissimi potenziali clienti…) attraverso contenuti originali pensati ad hoc.

Se forse in termini di ritorno economico il branded content (web o social) si rivela efficace nel medio periodo, comunque una strategia multicanale – fatta bene – può far crescere concretamente il business di un’azienda.

Per questo noi che lavoriamo nel mondo della comunicazione stiamo sempre con le antenne sollevate (l’ultima novità di Instagram in fatto di Stories risale a pochissimo tempo fa…).

Ah lo sapevate che Facebook tiene così tanto alle Stories da aver creato un’area dove vengono inserite le campagne più interessanti della settimana? Guarda e copia? No. Guarda e lasciati ispirare.

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Grafica Strategia Web

I colori del tuo brand non li scegli tu

I am feeling blue, diceva sempre Marco, un mio vecchio compagno di università depresso quando voleva giustificare la sua pigrizia. Non è una cosa rara associare uno stato d’animo a un colore; quando uno si sente blu, tendenzialmente è un po’ giù, ma è una cosa che deriva in toto dalla cultura americana, qui in Italia è più facile usare il nero. Sono nero, se sono arrabbiato, di umore nero se sono anche un po’ triste.

Ogni colore infatti ha un significato. Non intrinseco solitamente, ma influenzato da fattori storico sociali, oltre che dalle immediate reazioni che stimola (ricordiamoci che anche in questo caso però c’è un retaggio culturale che le guida).

Quando decidiamo di che colore dipingere la nostra camera da letto o il nostro salotto, ci chiediamo che sensazione vogliamo che rimandi. Vogliamo il giallo per farci sentire allegri e creativi sempre, da quando ci alziamo a quando ci corichiamo la sera, e il verde in salotto per far sapere che il nostro animo è green, è eco-chic.

I colori e il loro significato

Sì, i colori parlano, non smettono mai di farlo e quindi dobbiamo riflettere molto bene prima di sceglierne uno per rappresentare la nostra azienda. Logo, sito web, immagine coordinata, sono già un messaggio implicito di ciò che siamo e di ciò che proponiamo al cliente, non solo in termini di offerta tangibile, ma anche di mood.

Si sprecano gli imprenditori che fanno del proprio colore preferito (o peggio ancora dei colori della squadra del cuore) i colori del proprio brand. Non è saggio, devo dirvelo. Non è una scelta che va fatta di pancia! Se l’irrazionalità è pericolosa già nei sentimenti, figuriamoci in affari, per carità. Esistono delle regole, non solo psicologiche ma anche banalmente estetiche.

I colori interagiscono tra loro, alcuni in maniera positiva per l’occhio e quindi per la nostra mente, altri in maniera meno efficace, se non fastidiosa.

Quindi step n.1 capire cosa vuole comunicare il nostro brand, senza fare l’errore di identificarlo con noi stessi o con le persone che ci lavorano. L’azienda è un’entità terza con la sua personalità che può essere anche volutamente molto diversa da noi come individui… se può tranquillamente esistere un titolare di pompe funebri molto allegro nel suo privato, difficilmente esisterà un’immagine coordinata di pompe funebri che sfrutti tutti i colori dell’arcobaleno. Business is business.

Pensate, inoltre, che esistono diversi livelli di complessità. Alla base ogni colore ha una inclinazione “naturale”, il rosso è energia, il viola è glamour, ecc. Ma l’immagine di un’azienda comprende quasi necessariamente più di un colore. E qui la faccenda si complica. E arriva lo step. n.2: la corretta scelta dei colori aziendali dev’essere necessariamente frutto di uno studio di mercato ragionato sulla volontà di posizionamento del brand e sulla capacità del cliente di coglierne le giuste intenzioni. Si tratta di un processo che non può avvenire leggendo questo articolo o guardando uno schema riassuntivo delle emozioni che i colori suscitano. Occorre fare uno step in più e rivolgersi a chi lavora da anni per studiare immagini aziendali coerenti e di successo.

Chiudi gli occhi e immagina la tua azienda in una grande stanza. Di che colore vedi le pareti e tutti gli arredi? Ripeti questo giochino con tutte le figure chiave della tua azienda, e magari anche con qualche cliente, e raccogli i loro commenti. Potresti scoprire quanto la realtà sia distante dalle aspettative e quanto tu possa aver bisogno di intervenire per avvicinare il percepito con il reale.

Non esitare a contattarci per parlarne insieme.

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Social Tendenze

Una “social promozione” incredibile

Ormai luglio sta finendo e sui social network si sprecano i consigli su cosa scrivere ad agosto, cosa leggere durante le ferie, cosa fare durante le agognate vacanze. Mi stavo preparando a scrivere l’ennesimo post di questo tipo quando ieri mi sono imbattuto nella social promozione perfetta.
Per anni ho seguito corsi su corsi in merito alla SEO, alla lead generation sui social, agli algoritmi più folli e astrusi che i motori di ricerca prima e i social poi creano e modificano periodicamente per rendere sempre più complicata la vita ai marketer che provano a sfruttare al meglio il mondo social: il posto dove la gente c’è!

Ma ieri pomeriggio mi sono scontrato contro la vera e propria “campagna” social fai da te dal successo assolutamente assicurato!

Domenica, giornata afosa e noiosa. Decidiamo di andare a pranzo in un locale vicino a casa nostra dove si cucina di tutto. Cinese, Giapponese, Italiano, Brasiliano, Mongolo, Griglieria on demand, gelati, dolci… Locale pieno zeppo (nonostante la periferia milanese sia deserta), con tutte le tipologie di clientela possibili e immaginabili. Giovani, anziani, italiani, stranieri, bambini, ragazzi. Tutti ovviamente in lotta per la sagra dell’abbuffata in questo all you can eat di medio livello (va beh, non si può pretendere pure la super qualità) ma oggettivamente piacevole, nonostante il frastuono imperante.
Prezzo per tutto questo incredibile marasma culinario? Euro 14,80 bevande escluse. Beh dai ci può stare in quel di Milano un prezzo del genere. Ricerca spasmodica per un posto macchina (in quel di Bresso dove oggettivamente a volte è difficile trovare una persona camminare per ore!), ricerca ancora più spasmodica per un tavolo e via, si possono aprire le danze.
Tralasciando la parte commestibile, non sono un fan del cibo quindi non sarei credibile, arrivo dritto dritto alla fine del pranzo.
Ci mettiamo in coda alla cassa e vediamo tutti con il telefono in mano che fanno concorrenza a Pokemon Go sbattendo freneticamente i tasti sugli smartphone per poi mostrarlo alla gentilissima signorina in cassa (guarda caso cinese!).

“Scusi signora, posso chiederle cosa sta facendo?”.
“Ti fanno lo sconto del 10% se condividi la loro immagine promo su Facebook!”.

Scusa? Sì, si abbiamo capito bene. I signori applicano lo sconto – sullo scontrino arriverà la dicitura “Sconto Condivisione Social” – del 10% sul prezzo del menù fisso a chiunque mostri il telefonino con il loro post condiviso sulla propria bacheca.

Alla modica cifra di 1,48 euro a persona quel ristornate ha raggiunto tutti i follower di tutte le persone che ieri hanno mangiato lì. Meno di un euro e mezzo e tutti i miei amici hanno ricevuto la notifica che io ho mangiato in quel locale.

Facciamo un po’ di calcoli.
Ieri a pranzo a parer mio sono passate almeno 400/500 persone per quel ristorante.
Il costo dello sconto potrebbe essere quindi tra i 600 e i 750 euro (ovviamente non tutti hanno usufruito dello sconto visto che non tutti hanno Facebook!).
Facciamo conto che ogni utente abbia tra le 150 e le 300 connessioni. Non stiamo parlando di amici, ma di connessioni, potremmo parlare del famoso numero di Dunbar relativo alla struttura delle relazioni sociali, ma adesso stiamo parlando di reach vera e propria. Persone fisiche che sono in contatto con te sul tuo social preferito e che vedono come notifica le azioni che tu realizzi su quel social.

Quindi Excel alla mano: investimento tra i 600 e i 750 euro di sconto. Reach potenziale tra le 60mila e le 150mila persone.

Prendiamo Facebook Ads e proviamo a fare una simulazione con le stesse cifre creando una campagna per quella stessa pagina, andando a inserire qualche parametro relativo alla ricerca. Con un investimento tra i 600 e i 750 euro la copertura giornaliera stimata da Facebook è tra le 60mila e le 190mila persone.

Cifre relativamente simili. Dove sta la differenza? In questo caso stiamo parlando di Pubblicità. Stiamo parlando di un’azienda che promuove il proprio prodotto. Un’azienda che paga una cifra per parlare di sé. Inserisce i suoi contenuti all’interno di tutti i contenuti per promuovere il proprio prodotto.

Nel caso reale invece di cosa parlavamo? Di 400/500 persone che parlano in prima persona della loro esperienza presso quel ristorante e fondamentalmente invitano tutti i propri amici (con una notifica!) a provare anche loro quell’esperienza.

Voi pensate che il 10% di sconto sia un numero casuale? Secondo me assolutamente no. I proprietari hanno fatto i loro bei calcoletti su Facebook e hanno visto quale fosse il costo per raggiungere quel tipo di pubblico e definito il loro “mancato guadagno” come costo promozionale diretto del proprio ristorante.

Da campagna pubblicitaria su Facebook a Facebook come vettore pubblicitario indiretto: è proprio vero che i social, al di là di tutti gli algoritmi, sono ciò che gli utenti decidono di renderli.

Questi signori hanno reso Facebook la loro meravigliosa indiretta cassa di risonanza, senza dare un euro diretto a Facebook e rendendo felici i clienti che hanno pranzato da loro.

Siamo sicuri che lo sconto del 10% sia stato solo casuale o hanno calcolato il costo di Facebook Ads e lo hanno convertito in sconto alla clientela?

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Strategia

Samsung VS Apple: who’s cooler?

Samsung ha chiamato in causa Apple nel suo ultimo spot. Citare i competitors sfruttando l’ironia non è una novità negli USA. Sono anni che i creativi di Pepsi tirano fuori dal cilindro pubblicità irriverenti o spiritose per avvalorare la tesi che Pepsi sia meglio del gigante Coca-cola. Basta ricordare l’emblematica scena di un bambino che di fronte al distributore automatico acquista ben due lattine di Coca-cola… ma solo per usarle come rialzo per arrivare a selezionare la tanto ambita Pepsi (il video)!

Samsung cita Apple in maniera decisamente più raffinata, però. Lo spot descrive l’evoluzione della telefonia nel tempo, evidenziando le carenze tecniche prestazionali di Apple. Dal 2007, l’anno del primo iPhone, fino a oggi. Il video mostra un ragazzo che di anno in anno rimane deluso dal suo telefono Apple, mentre la sua fidanzata vive un’esistenza felice accompagnata dal suo Samsung. Alla fine il protagonista cede e abbandona la Mela in favore di Samsung. Eloquente la scena finale in cui il protagonista incrocia lo sguardo di un ragazzo in coda per comprare il nuovo iPhone X, come a sottolineare che spesso scegliere Apple è una moda più che una scelta ragionata. Non per niente lo spot si intitola “Growning up”, crescere, come a dire che il melafonino sia roba da ragazzini…

Questo in USA, dove il mondo pubblicitario è più coraggioso e audace e funziona sui brand che hanno una personalità forte e riconoscibile. In Italia non si è soliti osare tanto, anche perché i marchi non hanno una così alta riconoscibilità.

Nel nostro Paese si osa meno, il massimo in termini di advertising sono le pubblicità comparative in telefonia, confrontando le tariffe delle diverse compagnie telefoniche oppure i valori delle acque minerali. Battaglie combattute a suon di particelle di sodio insomma!

Su internet, invece, le visualizzazione delle gajarde pubblicità made in USA spopolano anche nel nostro Paese. Segno che un po’ di coraggio e creatività in più non guasterebbe, come dimostra il grande seguito ottenuto dai marchi più coraggiosi in fatto di advertising e posizionamento social… vedi Ceres e Taffo!

E voi che cosa ne pensate?

Possiamo permetterci di osare in pubblicità qui in Italia o meglio il buon vecchio spot autocelebrativo?

Noi una preferenza ce l’abbiamo, ma non ve la diremo, ancora!

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Strategia Tendenze

Quale ruolo ha la pubblicità nell’educazione civile e sociale?

La domanda me la sono posta leggendo le critiche piovute addosso all’ultimo spot CocaCola destinato al pubblico medio-orientale (qui il video).

La pubblicità mostra un uomo arabo dare lezioni di guida alla figlia e offrirle una CocaCola per infonderle coraggio di fronte alle sue incertezze al volante.

Premessa: In Arabia Saudita il re Salman ha annunciato che anche le donne potranno guidare, cosa ancora vietata nel Paese che rimaneva così baluardo di arretratezza.

Ora… le critiche sostengono che l’azienda americana sfrutti la “conquista” di questo diritto per fare marketing. Ma un pensiero sorge spontaneo: e quindi?

Uno spot Coca-cola, come immaginerete, ha un’enorme diffusione e fintanto che non veicola messaggi “sbagliati” direi che il problema non sussiste. Partendo dal presupposto che non è compito della pubblicità educare alla parità dei diritti, di genere e quant’altro. Personalmente credo che implicitamente e involontariamente la pubblicità abbia un potere straordinario. In quest’ottica chi la crea e la produce può (e dovrebbe) supportare le cause civili. Ma come?

Non si tratta di schierarsi apertamente per alcun soggetto debole. Spesso la cosa migliore è usare setting e ambientazioni che normalizzino il contesto sociale ideale da “promuovere”. Sarebbe il modo migliore per “educare” gli spettatori/acquirenti.

In quest’ottica, CocaCola non solo non ha sfruttato nulla, semmai ha appoggiato e sostenuto la battaglia per la parità di genere in Arabia Saudita, mostrando una nuova realtà, attualizzando cioè il fatto che da giugno 2018 le donne potranno guidare.

Questa cosa la sanno fare molto meglio di noi all’estero. Su tutti i paesi scandinavi, che da anni combattono (senza armi) per la parità di genere. Semplicemente uscendo dagli stereotipi di genere che modellano il mondo dei giocattoli, influenzando le abitudini e le aspirazioni dei bambini fin da piccolissimi.

In Svezia, ad esempio, una famosa azienda di giocattoli ha reso il suo advertising gender neutral. Non ha fatto grandi sermoni sulla parità di genere, semplicemente ha dato per scontato che anche i bambini maschi potessero giocare a dare il biberon alle bambole e che alle bambine potesse piacere sparare con un finto fucile.

Banalizzando dei messaggi che – ad esempio qui in Italia – sono ancora futuristici, se non blasfemi, si fa la gran parte del lavoro per il cambiamento dell’immaginario comune, quindi per la sua evoluzione.

La pubblicità veicola messaggi. Che voglia o non voglia. Tanto vale che veicoli quelli giusti o presunti tali.

Ben venga la donna araba che si tracanna la CocaCola. Non fa torto a nessuno, ma cambia l’immaginario della donna araba chiusa in casa a educare i figli.

L’ADV non ha e non deve avere la pretesa di salire in cattedra. Ma può veicolare immaginari “migliori” rispetto agli stereotipi sessisti o peggio ancora razziali che spesso riportano.

Se si riesce a fare pubblicità bene e in modo etico, tanto di guadagnato soprattutto per chi la fa, perché oggi i consumatori non scelgono solo il prodotto, ma anche chi lo produce!

Ma tornando a parlare di colori… CocaCola ha scelto da sempre il rosso per il proprio brand. E voi?

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Contenuti

Perché curare i propri contenuti web e social oggi è più importante che mai

Chiunque sia stato in un museo conosce bene la differenza tra una visita guidata e una visita “libera”. All’inizio sembra più affascinante l’idea di muoverci a nostro piacimento per tutte le stanze della collezione e liquidare velocemente quello che non ci colpisce al primo sguardo. In realtà a fine percorso spesso ci rendiamo conto di non aver imparato nulla e magari di esserci annoiati.

Lo stesso accade nel marasma dei contenuti web: avere una guida è utile. Conoscendo a menadito tutto il museo, la guida ci indica il percorso su misura per noi a seconda delle nostre curiosità. Sa raccontarci simpatici aneddoti sui pezzi della collezione e tener vivo il nostro interesse. Se è una buona guida, si intende.

Lo stesso vale per la cura dei contenuti. È fondamentale avere qualcuno che organizzi i contenuti per gli utenti. Un content editor è necessario perché l’esperienza dell’utente non sia mai noiosa ma arricchente.

Per vendere c’è il marketing e il content editing è il fertilizzante del terreno su cui il marketing pianterà i suoi semi.

Curare i propri contenuti significa:

  1. avere un piano editoriale ben definito: i lettori devono sapere cosa aspettarsi. Il blog e i canali social vanno aggiornati con cadenza periodica per creare dipendenza, se saprete fare un buon lavoro;
  2. il marketing non è mai stato solo promozione. I contenuti devono essere vari perché l’utente resti sulla tua pagina il più a lungo possibile;
  3. oggi più che mai, però, occorre creare un’identità di brand che stimoli la reazione dell’utente. Bisogna avere il coraggio di esprimere la visione del brand, limitandosi agli argomenti che riguardano il proprio ambito. Sfruttate a vostro favore le opinioni degli influencer per avvalorare le vostre posizioni;
  4. curare i propri contenuti non è un servizio dedicato solo a chi vi segue già. Usate tag e riferimenti a terzi che possano destare interesse e voglia di condividere ciò che pubblicate. Così cresce una comunità: dialogando;
  5. segui e ti seguiranno. Non è la Bibbia a dirlo, ma l’esperienza. Il miglior modo per ottenere un Like è metterlo a tua volta. Identifica gli influencer che fanno al caso tuo, quelli più in linea con la filosofia aziendale e seguili, interagisci. Potrebbe essere l’inizio di una fruttuosa collaborazione.

Curare i propri contenuti digitali oggi è fondamentale. Se riuscite a farlo in modo interessante per chi vi segue, avrete guadagnato prima la loro attenzione e poi la loro fiducia, creando un audience che rispecchia l’azienda, cioè il miglior bacino in cui fidelizzare i clienti e trovarne di nuovi.

E non dimenticatevi che i vostri follower sono i vostri fan. A loro potete proporre idee nuove e promozioni avendo un feedback prima di lanciarle sul mercato.

A proposito, sapete già di che colore è la vostra azienda?

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Contenuti Strategia

Netflix creepy? Potrebbe andare peggio, potrebbe twittare Pornhub!

Netflix ha tirato le somme dell’anno appena passato… e lo ha fatto a suo modo. Il team comunicazione dell’azienda californiana si è sempre distinto per la sua brillantezza e simpatia, ma questa volta ha aggiunto anche un pizzico di sarcasmo saccente al mix di ingredienti.

In un tweet dall’account Netflix US, l’azienda ha ironizzato sulle 53 persone che hanno guardato “A Christmas Prince” ogni giorno negli ultimi 18 giorni. “Who hurt you?” chiede Netflix agli spettatori compulsivi del film natalizio. E il pubblico in parte si indegna, in parte risponde di battuta in battuta.

Perché l’indignazione?

Come se non fosse ovvio che Netflix collezioni informazioni sugli utenti. È proprio il meccanismo di base che consente alla piattaforma di streaming di proporre una libreria ad hoc per ogni utente, basata sui suoi gusti, su ciò che ha già visto e che Netflix ovviamente conosce.

Di fatto moltissime aziende utilizzano big data e analytics per le loro campagne di marketing, o per migliorare i servizi. Solo che noi non ne siamo coscienti – e dovremmo, perché le privacy policy sono (quasi) sempre chiaramente espresse dalle aziende – eppure non ce ne rendiamo conto e ci stupiamo. Netflix ha usato i dati non solo per personalizzare il servizio di streaming ma, in questo caso, anche per il social media marketing. Possiamo dire che sia stata più trasparente di altre compagnie, al massimo, ma non meno rispettosa della privacy. Non ha fatto alcun nome o rivelato alcuna informazione sensibile che fosse riconducibile a qualcuno di specifico. In compenso è riuscita a chiamare in ballo i propri utenti in maniera ironica e forse un po’ provocatoria, cosa che non tutti hanno apprezzato, definendo Netflix addirittura creepy. Che sia stata ortodossa o meno, la gestione dell’account twitter di Netflix ha certamente creato un piccolo caso mediatico intorno alla vicenda e, trattandosi di marketing, si può dire che l’esperimento sia riuscito, dunque.

Anche un altro brand di successo ragiona con meccanismi simili ed è Spotify, che ha da poco avviato una campagna ads proprio basata su dati raccolti riguardo ai gusti musicali dei propri utenti.

Il concetto è molto simile a quello sfruttato da Netflix, eppure nessuno ha alzato la voce contro la piattaforma musicale più famosa del mondo. Perché ce la siamo presa tanto con Netflix? Perché ha messo in ridicolo lo spirito natalizio? Perché ci siamo sentiti chiamati in causa come se ci avessero preso in giro per le decine di volte che abbiamo visto “Mamma ho perso l’aereo”? O forse per pigrizia: è più facile replicare a un tweet che a un cartellone.

Alla fine l’utente più illuminato di tutta questa polemica è PitchforksAtTheGate, che risponde così: “Could be worse. @Porhub could be tweeting…”

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Strategia Tendenze

Marketing Automation? Sì, ma fatta bene

Oggi voglio spiegarvi cos’è la Marketing Automation per me e a cosa serva all’atto pratico. In poche parole, il termine Marketing Automation indica l’utilizzo di software che servono ad automatizzare specifiche attività di marketing. Lo scopo è snellire e migliorare il nostro modo di acquisire nuovi clienti in modo automatico.

Cosa rappresenta per me la Marketing Automation?

Questo strumento mi permette innanzitutto di implementare l’efficacia di ogni strategia programmata ottimizzando le tempistiche, poiché l’attuazione è veloce senza compromettere l’autenticità dei contenuti, che restano quelli prodotti dalla mia azienda.

Inoltre, è un aiuto concreto nel raggiungimento dei miei obiettivi di business.

La Marketing Automation permette di incrementare le entrate della mia azienda e quelle dei miei clienti guidando il traffico verso il rispettivo sito web, acquisendo nuovi contatti che quindi diventano potenziali clienti.

Il centro di questa strategia è proprio la conversione di contatti in clienti. Per noi, professionisti del settore, è fondamentale imparare a usare bene questi strumenti perché ogni errore inciderà direttamente sulla nostra immagine o, peggio ancora, su quella dei nostri clienti. E, detto tra noi: chi ha davvero voglia di passare al telefono mattinate intere ad ascoltare le lamentele di un cliente e interi pomeriggi a risolvere tutto?

A tal proposito ho pensato che, condividendo alcuni consigli basati sulle mie esperienze professionali, avrei potuto fornire linee guida importanti.

Noi abbiamo provato sui nostri clienti alcune attività di automation e vi posso assicurare che ci sono stati risultati incredibili. A una condizione, però: che il traffico sia gestito in maniera adeguata altrimenti, anziché tanti potenziali clienti, otterremo solo persone insoddisfatte!

Il primo consiglio è di non intraprendere strategie di automatizzazione senza aver prima ridefinito i vostri obiettivi. I nostri propositi possono e devono variare a seconda della strategia che decidiamo di usare. Questi strumenti non devono condurci a strategie che non porteranno benefici ai nostri clienti. Dobbiamo avere sempre ben chiare le loro richieste.

Un altro suggerimento è di integrare alle strategie di Automation Marketing quelle di Inbound Marketing. Bisogna continuare a fornire contenuti utili e interessanti anche quando si usa un software per l’automatizzazione.

Infine, lasciate perdere i messaggi generici: sono fastidiosi e inutili. Se volete buoni contenuti, fateli scrivere a chi lo fa di mestiere: affidatevi a un copywriter. Lui saprà raggiungere il target che i vostri clienti vogliono catturare. Saprà cosa dire e come dirlo.

L’ultimo consiglio riguarda proprio la relazione con i vostri clienti. Prendetevi cura di loro. Letteralmente. Ascoltateli per ore, giorni e anche mesi, se necessario. Rispettate i loro desideri e indirizzateli verso le scelte più convenienti. Incoraggiateli con il vostro lavoro e fate in modo di diventare tanto indispensabili da spingerli a chiedere il vostro aiuto anche in futuro.

Avete bisogno di un team di esperti? Noi lo siamo e sapremo guidarvi verso la strategia più adatta per il vostro brand.

La nostra professionalità è al vostro servizio e la nostra pazienza infinita.

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Strategia

Tu vuo fa l’americano, ma anche no!

Black Friday, Best Price, Brand, Fee, Concept, Brand Essence, Copywriter, Testimonials, ecc. Il mondo della pubblicità è infarcito di inglese. Giusto o sbagliato? Come avrete capito se vi è già capitato di leggere i miei articoli… dipende!

L’inglese è una bomba: chiaro, conciso, comunicativamente efficace. Ma sappiamo dove fermarci?

Ragioniamo sulla lingua e i suoi significati correlati. L’inglese è la lingua più associata alla tecnologia per ovvie ragioni: la Silicon Valley e tutto il know how made in USA. Da quando esistono i PC insomma… e come volevamo chiamarli, calcolatori personali? Davvero?

Un’ondata troppo ricca di oggetti e concetti nuovi perché le varie lingue – non solo quella italiana – producessero i relativi termini facendoli diventare di uso comune. Inoltre, gli oggetti un tempo riservati all’ambito lavorativo oggi sono diventati device alla portata di tutti, bambini compresi.

Ok, quindi passino termini come mouse, personal computer, smartphone, wireless etc., arrivati prima che fosse possibile contrastarli e assolutamente funzionali al proprio utilizzo.

Ma non sempre è utile abusare della lingua anglosassone. Ad esempio, come vi suona l’Italian Bakery vicino a Porta Venezia a Milano? Diciamolo: un po’ stona. Soprattutto se consideriamo che, in fatto di cibo, l’italiano è la lingua più diffusa per dare lustro e riconoscibilità alle attività che si occupano di ristorazione.

Quanti Peppino, Gennaro, Pizza & Pasta, avete visto nei vostri viaggi all’estero? Questo significa che un idioma porta con sé la sua cultura di riferimento, le sue caratteristiche più forti. La lingua italiana può solo essere di supporto alla causa del buon cibo.

Nonostante il concetto di slow-food volesse contrapporsi all’emulazione USA delle grandi catene dove il cibo è solo consumo, lo ha fatto mutuando un termine della lingua da cui avrebbe dovuto discostarsi. In quel caso, però, il gioco provocatorio basato sugli opposti slow/fast reggeva e vinceva l’incoerenza della scelta.

Ma i veri vincitori della guerra tra hamburger sono stati i fondatori dell’azienda piemontese Mac Bun, una agrihamburgeria che serve carne di Fassone di prima qualità. Il nome in piemontese significa “solo buono” ma, per la sua assonanza con la catena di fast food americana, ha subito addirittura una diffida da Mc Donald’s e ha dovuto così autocensurarsi in M** Bun. Ma ormai la macchina del marketing era bella che avviata e la minaccia del pagliaccio giallo non ha fatto altro che accrescere la fama dei ristoranti M** Bun.

Quindi se Italiano sta a cibo, ed è altrettanto assodata l’equazione Inglese/tecnologia, credo si possa giustificare anche quella Inglese/pubblicità. Gli USA sono i consumatori e produttori per eccellenza di advertising e ne hanno da insegnare a tutto il mondo. Va bene allora mutuare concetti che abbiamo appreso decenni dopo di loro, come quelli con cui ho aperto questo articolo. Va bene anche perché strizzano l’occhio al cliente e danno l’aria di conoscere i misteriosi meccanismi del marketing, e in effetti è proprio così.

Tutti gli ambiti tecnici hanno i loro linguaggi specifici, spesso orientati verso l’una o l’altra lingua. Così come i termini medici e scientifici trovano origine ed etimologia nel latino e nel greco, così fenomeni e attività più recenti si accostano più naturalmente all’inglese. Niente di male.

Ma attenzione: non lasciamo che in ogni ambito la comunicazione si appiattisca sull’inglese. Sarebbe fuorviante e talvolta ridicolo, macchiettistico, come l’Italian Bakery di Milano.

E soprattutto non abbiamo la pretesa di conoscere l’inglese perché appiccichiamo qua e là alcuni termini all’interno del nostro discorso. Ricordiamoci con umiltà che la lingua non è fatta solo di termini, ma anche di regole grammaticali e sintattiche. Ma aggiungere una “s” a un termine inglese per farne il plurale non ci rende più british, ma solo più ignoranti.

Ancora una volta la risposta alla domanda iniziale, in questo caso English or not?, è sì, ma attenzione. Sapere l’Inglese è cosa diversa da sfruttarne i termini solo per parlare di marketing e adv o per produrne i contenuti. Ma questa è ancora un’altra storia.