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Social Tendenze

Una “social promozione” incredibile

Ormai luglio sta finendo e sui social network si sprecano i consigli su cosa scrivere ad agosto, cosa leggere durante le ferie, cosa fare durante le agognate vacanze. Mi stavo preparando a scrivere l’ennesimo post di questo tipo quando ieri mi sono imbattuto nella social promozione perfetta.
Per anni ho seguito corsi su corsi in merito alla SEO, alla lead generation sui social, agli algoritmi più folli e astrusi che i motori di ricerca prima e i social poi creano e modificano periodicamente per rendere sempre più complicata la vita ai marketer che provano a sfruttare al meglio il mondo social: il posto dove la gente c’è!

Ma ieri pomeriggio mi sono scontrato contro la vera e propria “campagna” social fai da te dal successo assolutamente assicurato!

Domenica, giornata afosa e noiosa. Decidiamo di andare a pranzo in un locale vicino a casa nostra dove si cucina di tutto. Cinese, Giapponese, Italiano, Brasiliano, Mongolo, Griglieria on demand, gelati, dolci… Locale pieno zeppo (nonostante la periferia milanese sia deserta), con tutte le tipologie di clientela possibili e immaginabili. Giovani, anziani, italiani, stranieri, bambini, ragazzi. Tutti ovviamente in lotta per la sagra dell’abbuffata in questo all you can eat di medio livello (va beh, non si può pretendere pure la super qualità) ma oggettivamente piacevole, nonostante il frastuono imperante.
Prezzo per tutto questo incredibile marasma culinario? Euro 14,80 bevande escluse. Beh dai ci può stare in quel di Milano un prezzo del genere. Ricerca spasmodica per un posto macchina (in quel di Bresso dove oggettivamente a volte è difficile trovare una persona camminare per ore!), ricerca ancora più spasmodica per un tavolo e via, si possono aprire le danze.
Tralasciando la parte commestibile, non sono un fan del cibo quindi non sarei credibile, arrivo dritto dritto alla fine del pranzo.
Ci mettiamo in coda alla cassa e vediamo tutti con il telefono in mano che fanno concorrenza a Pokemon Go sbattendo freneticamente i tasti sugli smartphone per poi mostrarlo alla gentilissima signorina in cassa (guarda caso cinese!).

“Scusi signora, posso chiederle cosa sta facendo?”.
“Ti fanno lo sconto del 10% se condividi la loro immagine promo su Facebook!”.

Scusa? Sì, si abbiamo capito bene. I signori applicano lo sconto – sullo scontrino arriverà la dicitura “Sconto Condivisione Social” – del 10% sul prezzo del menù fisso a chiunque mostri il telefonino con il loro post condiviso sulla propria bacheca.

Alla modica cifra di 1,48 euro a persona quel ristornate ha raggiunto tutti i follower di tutte le persone che ieri hanno mangiato lì. Meno di un euro e mezzo e tutti i miei amici hanno ricevuto la notifica che io ho mangiato in quel locale.

Facciamo un po’ di calcoli.
Ieri a pranzo a parer mio sono passate almeno 400/500 persone per quel ristorante.
Il costo dello sconto potrebbe essere quindi tra i 600 e i 750 euro (ovviamente non tutti hanno usufruito dello sconto visto che non tutti hanno Facebook!).
Facciamo conto che ogni utente abbia tra le 150 e le 300 connessioni. Non stiamo parlando di amici, ma di connessioni, potremmo parlare del famoso numero di Dunbar relativo alla struttura delle relazioni sociali, ma adesso stiamo parlando di reach vera e propria. Persone fisiche che sono in contatto con te sul tuo social preferito e che vedono come notifica le azioni che tu realizzi su quel social.

Quindi Excel alla mano: investimento tra i 600 e i 750 euro di sconto. Reach potenziale tra le 60mila e le 150mila persone.

Prendiamo Facebook Ads e proviamo a fare una simulazione con le stesse cifre creando una campagna per quella stessa pagina, andando a inserire qualche parametro relativo alla ricerca. Con un investimento tra i 600 e i 750 euro la copertura giornaliera stimata da Facebook è tra le 60mila e le 190mila persone.

Cifre relativamente simili. Dove sta la differenza? In questo caso stiamo parlando di Pubblicità. Stiamo parlando di un’azienda che promuove il proprio prodotto. Un’azienda che paga una cifra per parlare di sé. Inserisce i suoi contenuti all’interno di tutti i contenuti per promuovere il proprio prodotto.

Nel caso reale invece di cosa parlavamo? Di 400/500 persone che parlano in prima persona della loro esperienza presso quel ristorante e fondamentalmente invitano tutti i propri amici (con una notifica!) a provare anche loro quell’esperienza.

Voi pensate che il 10% di sconto sia un numero casuale? Secondo me assolutamente no. I proprietari hanno fatto i loro bei calcoletti su Facebook e hanno visto quale fosse il costo per raggiungere quel tipo di pubblico e definito il loro “mancato guadagno” come costo promozionale diretto del proprio ristorante.

Da campagna pubblicitaria su Facebook a Facebook come vettore pubblicitario indiretto: è proprio vero che i social, al di là di tutti gli algoritmi, sono ciò che gli utenti decidono di renderli.

Questi signori hanno reso Facebook la loro meravigliosa indiretta cassa di risonanza, senza dare un euro diretto a Facebook e rendendo felici i clienti che hanno pranzato da loro.

Siamo sicuri che lo sconto del 10% sia stato solo casuale o hanno calcolato il costo di Facebook Ads e lo hanno convertito in sconto alla clientela?

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Strategia

Samsung VS Apple: who’s cooler?

Samsung ha chiamato in causa Apple nel suo ultimo spot. Citare i competitors sfruttando l’ironia non è una novità negli USA. Sono anni che i creativi di Pepsi tirano fuori dal cilindro pubblicità irriverenti o spiritose per avvalorare la tesi che Pepsi sia meglio del gigante Coca-cola. Basta ricordare l’emblematica scena di un bambino che di fronte al distributore automatico acquista ben due lattine di Coca-cola… ma solo per usarle come rialzo per arrivare a selezionare la tanto ambita Pepsi (il video)!

Samsung cita Apple in maniera decisamente più raffinata, però. Lo spot descrive l’evoluzione della telefonia nel tempo, evidenziando le carenze tecniche prestazionali di Apple. Dal 2007, l’anno del primo iPhone, fino a oggi. Il video mostra un ragazzo che di anno in anno rimane deluso dal suo telefono Apple, mentre la sua fidanzata vive un’esistenza felice accompagnata dal suo Samsung. Alla fine il protagonista cede e abbandona la Mela in favore di Samsung. Eloquente la scena finale in cui il protagonista incrocia lo sguardo di un ragazzo in coda per comprare il nuovo iPhone X, come a sottolineare che spesso scegliere Apple è una moda più che una scelta ragionata. Non per niente lo spot si intitola “Growning up”, crescere, come a dire che il melafonino sia roba da ragazzini…

Questo in USA, dove il mondo pubblicitario è più coraggioso e audace e funziona sui brand che hanno una personalità forte e riconoscibile. In Italia non si è soliti osare tanto, anche perché i marchi non hanno una così alta riconoscibilità.

Nel nostro Paese si osa meno, il massimo in termini di advertising sono le pubblicità comparative in telefonia, confrontando le tariffe delle diverse compagnie telefoniche oppure i valori delle acque minerali. Battaglie combattute a suon di particelle di sodio insomma!

Su internet, invece, le visualizzazione delle gajarde pubblicità made in USA spopolano anche nel nostro Paese. Segno che un po’ di coraggio e creatività in più non guasterebbe, come dimostra il grande seguito ottenuto dai marchi più coraggiosi in fatto di advertising e posizionamento social… vedi Ceres e Taffo!

E voi che cosa ne pensate?

Possiamo permetterci di osare in pubblicità qui in Italia o meglio il buon vecchio spot autocelebrativo?

Noi una preferenza ce l’abbiamo, ma non ve la diremo, ancora!

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Strategia Tendenze

Quale ruolo ha la pubblicità nell’educazione civile e sociale?

La domanda me la sono posta leggendo le critiche piovute addosso all’ultimo spot CocaCola destinato al pubblico medio-orientale (qui il video).

La pubblicità mostra un uomo arabo dare lezioni di guida alla figlia e offrirle una CocaCola per infonderle coraggio di fronte alle sue incertezze al volante.

Premessa: In Arabia Saudita il re Salman ha annunciato che anche le donne potranno guidare, cosa ancora vietata nel Paese che rimaneva così baluardo di arretratezza.

Ora… le critiche sostengono che l’azienda americana sfrutti la “conquista” di questo diritto per fare marketing. Ma un pensiero sorge spontaneo: e quindi?

Uno spot Coca-cola, come immaginerete, ha un’enorme diffusione e fintanto che non veicola messaggi “sbagliati” direi che il problema non sussiste. Partendo dal presupposto che non è compito della pubblicità educare alla parità dei diritti, di genere e quant’altro. Personalmente credo che implicitamente e involontariamente la pubblicità abbia un potere straordinario. In quest’ottica chi la crea e la produce può (e dovrebbe) supportare le cause civili. Ma come?

Non si tratta di schierarsi apertamente per alcun soggetto debole. Spesso la cosa migliore è usare setting e ambientazioni che normalizzino il contesto sociale ideale da “promuovere”. Sarebbe il modo migliore per “educare” gli spettatori/acquirenti.

In quest’ottica, CocaCola non solo non ha sfruttato nulla, semmai ha appoggiato e sostenuto la battaglia per la parità di genere in Arabia Saudita, mostrando una nuova realtà, attualizzando cioè il fatto che da giugno 2018 le donne potranno guidare.

Questa cosa la sanno fare molto meglio di noi all’estero. Su tutti i paesi scandinavi, che da anni combattono (senza armi) per la parità di genere. Semplicemente uscendo dagli stereotipi di genere che modellano il mondo dei giocattoli, influenzando le abitudini e le aspirazioni dei bambini fin da piccolissimi.

In Svezia, ad esempio, una famosa azienda di giocattoli ha reso il suo advertising gender neutral. Non ha fatto grandi sermoni sulla parità di genere, semplicemente ha dato per scontato che anche i bambini maschi potessero giocare a dare il biberon alle bambole e che alle bambine potesse piacere sparare con un finto fucile.

Banalizzando dei messaggi che – ad esempio qui in Italia – sono ancora futuristici, se non blasfemi, si fa la gran parte del lavoro per il cambiamento dell’immaginario comune, quindi per la sua evoluzione.

La pubblicità veicola messaggi. Che voglia o non voglia. Tanto vale che veicoli quelli giusti o presunti tali.

Ben venga la donna araba che si tracanna la CocaCola. Non fa torto a nessuno, ma cambia l’immaginario della donna araba chiusa in casa a educare i figli.

L’ADV non ha e non deve avere la pretesa di salire in cattedra. Ma può veicolare immaginari “migliori” rispetto agli stereotipi sessisti o peggio ancora razziali che spesso riportano.

Se si riesce a fare pubblicità bene e in modo etico, tanto di guadagnato soprattutto per chi la fa, perché oggi i consumatori non scelgono solo il prodotto, ma anche chi lo produce!

Ma tornando a parlare di colori… CocaCola ha scelto da sempre il rosso per il proprio brand. E voi?

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Perché curare i propri contenuti web e social oggi è più importante che mai

Chiunque sia stato in un museo conosce bene la differenza tra una visita guidata e una visita “libera”. All’inizio sembra più affascinante l’idea di muoverci a nostro piacimento per tutte le stanze della collezione e liquidare velocemente quello che non ci colpisce al primo sguardo. In realtà a fine percorso spesso ci rendiamo conto di non aver imparato nulla e magari di esserci annoiati.

Lo stesso accade nel marasma dei contenuti web: avere una guida è utile. Conoscendo a menadito tutto il museo, la guida ci indica il percorso su misura per noi a seconda delle nostre curiosità. Sa raccontarci simpatici aneddoti sui pezzi della collezione e tener vivo il nostro interesse. Se è una buona guida, si intende.

Lo stesso vale per la cura dei contenuti. È fondamentale avere qualcuno che organizzi i contenuti per gli utenti. Un content editor è necessario perché l’esperienza dell’utente non sia mai noiosa ma arricchente.

Per vendere c’è il marketing e il content editing è il fertilizzante del terreno su cui il marketing pianterà i suoi semi.

Curare i propri contenuti significa:

  1. avere un piano editoriale ben definito: i lettori devono sapere cosa aspettarsi. Il blog e i canali social vanno aggiornati con cadenza periodica per creare dipendenza, se saprete fare un buon lavoro;
  2. il marketing non è mai stato solo promozione. I contenuti devono essere vari perché l’utente resti sulla tua pagina il più a lungo possibile;
  3. oggi più che mai, però, occorre creare un’identità di brand che stimoli la reazione dell’utente. Bisogna avere il coraggio di esprimere la visione del brand, limitandosi agli argomenti che riguardano il proprio ambito. Sfruttate a vostro favore le opinioni degli influencer per avvalorare le vostre posizioni;
  4. curare i propri contenuti non è un servizio dedicato solo a chi vi segue già. Usate tag e riferimenti a terzi che possano destare interesse e voglia di condividere ciò che pubblicate. Così cresce una comunità: dialogando;
  5. segui e ti seguiranno. Non è la Bibbia a dirlo, ma l’esperienza. Il miglior modo per ottenere un Like è metterlo a tua volta. Identifica gli influencer che fanno al caso tuo, quelli più in linea con la filosofia aziendale e seguili, interagisci. Potrebbe essere l’inizio di una fruttuosa collaborazione.

Curare i propri contenuti digitali oggi è fondamentale. Se riuscite a farlo in modo interessante per chi vi segue, avrete guadagnato prima la loro attenzione e poi la loro fiducia, creando un audience che rispecchia l’azienda, cioè il miglior bacino in cui fidelizzare i clienti e trovarne di nuovi.

E non dimenticatevi che i vostri follower sono i vostri fan. A loro potete proporre idee nuove e promozioni avendo un feedback prima di lanciarle sul mercato.

A proposito, sapete già di che colore è la vostra azienda?

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Netflix creepy? Potrebbe andare peggio, potrebbe twittare Pornhub!

Netflix ha tirato le somme dell’anno appena passato… e lo ha fatto a suo modo. Il team comunicazione dell’azienda californiana si è sempre distinto per la sua brillantezza e simpatia, ma questa volta ha aggiunto anche un pizzico di sarcasmo saccente al mix di ingredienti.

In un tweet dall’account Netflix US, l’azienda ha ironizzato sulle 53 persone che hanno guardato “A Christmas Prince” ogni giorno negli ultimi 18 giorni. “Who hurt you?” chiede Netflix agli spettatori compulsivi del film natalizio. E il pubblico in parte si indegna, in parte risponde di battuta in battuta.

Perché l’indignazione?

Come se non fosse ovvio che Netflix collezioni informazioni sugli utenti. È proprio il meccanismo di base che consente alla piattaforma di streaming di proporre una libreria ad hoc per ogni utente, basata sui suoi gusti, su ciò che ha già visto e che Netflix ovviamente conosce.

Di fatto moltissime aziende utilizzano big data e analytics per le loro campagne di marketing, o per migliorare i servizi. Solo che noi non ne siamo coscienti – e dovremmo, perché le privacy policy sono (quasi) sempre chiaramente espresse dalle aziende – eppure non ce ne rendiamo conto e ci stupiamo. Netflix ha usato i dati non solo per personalizzare il servizio di streaming ma, in questo caso, anche per il social media marketing. Possiamo dire che sia stata più trasparente di altre compagnie, al massimo, ma non meno rispettosa della privacy. Non ha fatto alcun nome o rivelato alcuna informazione sensibile che fosse riconducibile a qualcuno di specifico. In compenso è riuscita a chiamare in ballo i propri utenti in maniera ironica e forse un po’ provocatoria, cosa che non tutti hanno apprezzato, definendo Netflix addirittura creepy. Che sia stata ortodossa o meno, la gestione dell’account twitter di Netflix ha certamente creato un piccolo caso mediatico intorno alla vicenda e, trattandosi di marketing, si può dire che l’esperimento sia riuscito, dunque.

Anche un altro brand di successo ragiona con meccanismi simili ed è Spotify, che ha da poco avviato una campagna ads proprio basata su dati raccolti riguardo ai gusti musicali dei propri utenti.

Il concetto è molto simile a quello sfruttato da Netflix, eppure nessuno ha alzato la voce contro la piattaforma musicale più famosa del mondo. Perché ce la siamo presa tanto con Netflix? Perché ha messo in ridicolo lo spirito natalizio? Perché ci siamo sentiti chiamati in causa come se ci avessero preso in giro per le decine di volte che abbiamo visto “Mamma ho perso l’aereo”? O forse per pigrizia: è più facile replicare a un tweet che a un cartellone.

Alla fine l’utente più illuminato di tutta questa polemica è PitchforksAtTheGate, che risponde così: “Could be worse. @Porhub could be tweeting…”

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I tuoi giorni migliori non sono in vendita

La nostalgia, lo abbiamo letto ovunque, è letteralmente “il dolore del ritorno”.  Non un dolore lacerante, ma quella piacevole sensazione che ti contorce lo stomaco quando un volto che non fa più parte della tua vita ti torna in mente di sorpresa. Ti incanti fissando il vuoto, ti culli in un ricordo.

Perché tutte le persone che non ci sono più, tutte le storie finite e tutte le cose che non possiamo più avere, le ricordiamo più belle, più rosee di come non fossero in realtà? A rispondere è la psicologia, si tratta di un errore cognitivo definito retrospettiva rosea.

Il marketing della nostalgia sfrutta proprio questo inganno della mente per colpire il consumatore proponendo una grafica vintage, reinventando prodotti già in commercio da decenni o addirittura riproponendo beni precedentemente ritirati dal mercato.

Il marketing della nostalgia è così efficace che sono gli stessi consumatori a farlo. Così dimostra la vicenda Winner Taco. Il gelato rivestito di cialda e cioccolato fece il suo debutto sul mercato italiano nel lontano 1998 e in realtà durò solo pochi anni. Dopo un silenzio di oltre 10 anni i suoi fan hanno iniziato una vera e propria campagna di protesta per ottenere il ritorno dell’Orso Bianco. A suon di troll e meme che hanno invaso le pagine di Algida e dei maggiori prodotti di punta del brand, i fedelissimi del Taco sono riusciti nel loro intento: nel 2014 il Winner Taco è tornato ad allietare le estati italiane, facendo felici i nostalgici che hanno da allora potuto rimpiangere altri oggetti di culto.

Tutte le grandi aziende sono cadute nella tentazione del marketing nostalgico. A partire da Coca-cola, che ha celebrato con una massiccia campagna comunicativa un secolo di storia della iconica bottiglietta in vetro, festeggiato il 16 novembre 2015. Lo ha fatto anche l’industria cinematografica tirando fuori dal cilindro il sequel di film che hanno segnato un’epoca come Trainspotting o It. Anche Fiat ha dato il suo contributo per riportare il mondo un passo indietro. Ha rispolverato prima la gloriosa Fiat 500 e recentemente la 124 Spider, un’icona di spensieratezza e aria tra i capelli. Sembra che tutto il mercato remi all’indietro.

La nostalgia, il ricordo delle cose passate – come suggerisce William Shakespeare – è l’unica àncora fissa a cui appigliarsi nell’epoca delle incertezze.

Il marketing della nostalgia non solo funziona, ma è anche redditizio. Ha un target preciso: gli odierni quarantenni. Persone che solitamente hanno un potere di acquisto superiore ai giovanissimi poiché godono di un impiego fisso trovato prima che la crisi esplodesse con tutta la sua forza. Non è solo una questione di disponibilità economica, ma di impostazione mentale. Chi è stato giovane negli 80s è per natura più propenso a spendere, che i soldi ci siano o no. Cosa non si fa per un pezzo di cuore. Per battere i figli a Super Mario Bros sul Nintendo 64.

Potete comprarvi un vinile degli Smiths, parlare al telefono con il 3310 e scattarvi una bella polaroid di gruppo. Quel che noterete però è che non sarà mai bello come allora. E poi vuoi mettere i selfie con l’IPhone?

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Come utilizzare i social per trovare Lead

Si definiscono “lead” i potenziali clienti che mostrano un certo interesse nei confronti del brand, dei prodotti o dei servizi di un’azienda.

Si tratta di contatti che, ad esempio, si sono iscritti alla newsletter, hanno scaricato un contenuto o hanno contattato telefonicamente o per email l’azienda in questione.

Uno dei principali vantaggi di utilizzare i social media per generare lead è la possibilità di concentrarsi su profili altamente qualificati, grazie al targeting avanzato: i social media permettono, infatti, di entrare in contatto con un pubblico molto vasto e con una miriade di informazioni volontariamente condivise.

Allo stesso tempo, uno degli errori più facili da commettere è cercare i contatti sul social network sbagliato: una lead generation ideale necessita, prima di tutto, di conoscere il proprio target, le sue abitudini e le sue esigenze.

Vista la maggioranza di utenti è facile pensare che Facebook possa essere la scelta migliore, ma non è sempre vero: circa la metà delle aziende che operano in ambito B2B, infatti, genera nuovi lead attraverso Linkedin, meno del 40% usa Facebook e appena il 30% Twitter.

Un altro aspetto fondamentale è il tipo di lead che si vuole ottenere, perché è in funzione di questa scelta che si studia la strategia, che solitamente prevede due fasi: creazione di contenuti in grado di intrattenere e interessare gli utenti e condivisione degli stessi su altre piattaforme (altri social network, blog, siti web).

Quando si parla di Lead è importante comprendere che non si tratta di un guadagno facile né tanto meno immediato. Il percorso che porta i Lead a essere Clienti richiede un investimento di tempo definito “nurturing”, cioè nutrimento. I Lead sono le sementi che piantiamo in quantità; sappiamo che dobbiamo prenderci cura di ogni seme, innaffiandolo regolarmente e concimando il terreno con la consapevolezza che solo alcuni daranno vita a una pianta.

Ma come si nutrono i lead?

Con contenuti validi e interessanti.

Può sembrare una perdita di tempo o un investimento sproporzionato ma, studiando bene il target di riferimento, la Lead generation può creare un bacino di utenti/clienti più che solido, che contribuirà direttamente al benessere aziendale o aiuterà ad ampliare ulteriormente reputation e contatti attraverso il passaparola digitale.

Feed your lead!

Per concludere, vi lascio con una domanda che mi sono posto spesso, di recente: “Di che colore è il vostro Brand?”

Un colore è identificativo e la risposta a questa domanda non è mai definitiva al 100%. Provate a rifletterci, individuate l’essenza del vostro brand, datele un colore. Sceglietelo d’impulso e accostatelo alla vostra filosofia, al vostro metodo, al vostro rapporto con il brand.

Vi verrà spontaneo, a un certo punto, chiedere di più.

Il colore scelto d’istinto non è definito, ha in sé milioni di sfumature. Ed è solo con uno studio approfondito che si scova la gradazione capace di rispecchiare al 100% la vostra Brand Essence.

Se il vostro istinto vi porta verso un giallo, per intenderci, in un secondo momento vi verrà da chiedervi se quel giallo sia giallo ambra, crema o giallo limone. È questo il percorso che vi invitiamo a fare, con noi al vostro fianco. Saremo in grado di guidarvi, mostrarvi ogni possibile gradazione, lasciando comunque che siate voi a trovare la vostra.

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Essere o non essere? No, il problema è l’essence

Il brand è ciò che il cliente percepisce, un insieme di sensazioni e di emozioni che rappresentano la reputazione dell’impresa. Per definizione, prende posizione su uno specifico modo di essere e di pensare, acquista caratteristiche quasi umane – e infatti parliamo di anima, essenza – e, come gli umani, ha la possibilità di evolvere nel tempo.

Il brand necessita di un nome giusto, un nome che coinvolga il pubblico, facile da pronunciare e che tenga fede al mercato di riferimento, e di un logo che non sia banalmente descrittivo ma abbia in sé una capacità evocativa non indifferente.

Per ottenere il massimo dell’efficacia, la brand essence dev’essere:

  • Unica: deve evidenziare ciò che rende il prodotto offerto dall’azienda diverso dai competitor
  • Intangibile: il brand deve suscitare emozioni, qualcosa che non possa essere toccato con mano ma in grado di colpire
  • Ben definita: una o massimo due/tre parole devono bastare per esprimere il core dell’azienda, un messaggio semplice e facile da ricordare che si imprima nella memoria
  • Esperienziale: cattura le emozioni che il cliente prova con l’esperienza del prodotto, e le riporta
  • Significativa: deve avere importanza per il target di riferimento dell’azienda
  • Ripetitiva: la brand essence deve realizzarsi ogni volta che il cliente interagisce con il brand
  • Durevole: non deve mai cambiare nel tempo ma rispettare il patto fatto con i propri clienti
  • Autentica: deve rappresentare onestamente il brand per essere accettato dai consumatori
  • Adattabile: dev’essere in grado di resistere nonostante la possibile crescita del business.

Individuare l’essenza del proprio brand è indispensabile per qualunque impresa e rappresenta il primo passo verso il mondo del marketing: la brand essence rappresenta, infatti, il più grande punto di forza di un’impresa, ciò attorno al quale ruoterà il suo mercato.

Solo dopo aver definito la propria brand essence si può parlare di strategia di marketing o di piano d’azione, di target e di commercio vero e proprio.

Un esempio di come una brand essence ben definita sia un assoluto vantaggio, è certamente quello di Ceres. Ha da qualche anno messo in atto una strategia di real time marketing possibile solo grazie a un’essenza inossidabile e delineata. Ceres è decisa, ironica e dissacrante e così lo è la sua comunicazione.

Solo un brand che conosce alla perfezione il suo target può permettersi di essere irriverente come Ceres senza rischiare di perdere consenso.

Se il brand fosse un albero, la sua essenza sarebbe la linfa, l’attributo più importante che lo distingue dalla concorrenza, la costante tra tutte le categorie di prodotto del brand.

A proposito, da qualche settimana ci gira in testa una domanda:

“Di che colore è la vostra azienda?”.

Rifletteteci e datevi una risposta prima di pancia e poi di testa. Se la risposta non è significativa, sentiamoci, potrebbe essere interessante scoprire come mai il “giallo della pancia” non corrisponde al “blu della testa”.

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La comunicazione 121 su larga scala

Il marketing one to one, la comunicazione 121 di cui si parla tanto oggi, non è altro che l’ennesimo ritorno al passato. Quella nostalgica voglia di vintage che sta invadendo ogni ambito. Un tempo ogni cliente era unico, speciale e prezioso. Quando si ragionava sulle persone piuttosto che sugli utenti, navigatori, user. Prima dell’avvento dell’e-commerce e diciamo anche prima della GDO.

Ora il marketing vuole tornare a parlare con te, vuole conoscere la tua storia e porre in evidenza la tua individualità. Sfida ambiziosa ai tempi del web.

In realtà la Rete, a differenza di mezzi come la televisione e i giornali, fornisce un’infinità di informazioni sui potenziali clienti. Basta saperle sfruttare.

L’obiettivo di questo tipo di marketing non è tanto attrarre nuovi clienti, quanto conoscere così bene quelli attuali da rispondere alle loro esigenze e fidelizzarli. Insomma, se quella tra massive market e clienti è la scappatella di una notte, quella che cerca di costruire il marketing 121 è una vera storia d’amore.

Il marketing one to one originariamente si compone di 4 fasi che rispondono ad altrettante domande:

  1. Chi sono i miei clienti?
  2. Come si distinguono gli uni dagli altri?
  3. Come posso entrare in contatto diretto con loro?
  4. Cosa posso offrire di perfetto per uno piuttosto che per l’altro cliente?

Attraverso il sito web aziendale si interagisce con l’utente. Dalla richiesta di informazioni su un prodotto, agli ordini, all’assistenza tecnica: tutte queste informazioni devono essere a disposizione di chi gestisce il marketing. Insieme a questi dati e alle tracce lasciate dall’utente nel web al suo passaggio. Una volta individuati i differenti cluster, cioè gruppi di clienti simili, si procede con il contatto diretto che può avvenire:

  • tramite e-mail (DEM), prediligendo gli utenti che hanno acconsentito all’invio di comunicazioni commerciali;
  • tramite comunicazioni istantanee dal proprio sito aziendale attraverso l’apertura di pop-up e finestre di dialogo. O sfruttando Telegram e la messaggistica di FB per essere sicuri di intercettare l’attenzione del cliente.

Un eccellente esempio di marketing one to one è la campagna condotta da Ferrero, “Nutella sei tu”. Nulla funziona più del nostro nome di battesimo per chiamarci in causa e farci sentire al centro dell’attenzione. Attraverso la pagina FB di Nutella è possibile richiedere l’etichetta personalizzata e farla recapitare direttamente a casa. Scelta azzeccata e sostenuta da una massiccia campagna promozionale televisiva.

Quando si parla di marketing online sembra impossibile rivolgersi all’Uno, lavorando ovviamente su numeri di clienti enormi. Quello che si deve fare è puntare a coinvolgere l’ambito emozionale e scovare tutti quegli aspetti che fanno sentire il cliente un unicum. Come se a chiamarti Marco, Giovanni, Luca, fossi solo tu che leggi e nessun altro al mondo.

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Come si gestisce l’Instant communication di un evento?

Venerdì 13 ottobre si è svolta la settima edizione dell’E-Commerce Day presso il Mirafiori Motor Village di casa FCA a Torino. Villa Consulting era presente per occuparsi di tutta l’instant communication dell’evento.

Ma come si gestisce il live posting in questi casi?

Seguire un evento e gestirne la comunicazione live non è una cosa che si improvvisa con uno smartphone tra una chat e l’altra. Come ogni cosa fatta in ottica business, va fatta con metodo e professionalità. Il perché lo si fa, lo ha spiegato molto bene il mio socio Alessandro Chiavacci che sarà con me venerdì. Già, una persona non basta per gestire la comunicazione di un intero evento di questo tipo.

La preparazione inizia appena viene annunciato il programma con gli orari degli speech:

Step n.1

Si scarica l’elenco dei relatori e si dà un’occhiata alla loro digital presence sui social. Preferibilmente si selezionano gli account aziendali e le pagine pubbliche dei soggetti, ma se il profilo personale ha un taglio professionale, si prende in considerazione anche quello.

Step n.2

In una tabella si raccolgono tutti gli account presi durante lo step 1 e si creano così i tag per i nostri live post.

Step n.3

Si crea una lista di tag utili da utilizzare nella concitazione del live tweeting. Si parte da quello ufficiale dell’evento fino a quelli argomento dei dibattiti (visibili dal programma).

Step n.4

Per Twitter ci creiamo un bella scrivania ad hoc per l’evento. Con Tweetdeck, infatti, possiamo gestire più profili contemporaneamente, seguire l’hashtag dell’evento e i dibattiti intorno all’argomento, monitorare i profili dei relatori e degli altri partecipanti per tenere d’occhio i tweet da ritwittare. Sempre con quest’App potete gestire la programmazione dei tweet. Ad esempio il primo “cinguettio” di ogni relatore può essere il titolo dello speech, accompagnato dagli hashtag dell’evento e dai tag relativi a chi parla. Come vedete, anche il live posting può essere almeno in parte pianificato.

Finite le operazioni più tecniche non resta che decidere quanto essere Push con la frequenza dei post. Per Facebook è sempre meglio andarci piano. Essendo una piattaforma dalla vocazione più emozionale che business è consigliabile accompagnare un messaggio significativo con una testimonianza video o una bella foto o grafica. E non andare mai oltre i 2 o 3 post all’ora, pena la perdita di follower! Con Twitter invece potete strafare e raccontare fedelmente ogni passo dell’evento. Le citazioni sono i tweet perfetti, ma anche un breve commento può arricchire il vostro lavoro. Per Instagram, se non riuscite a fare delle foto valide, potete mettere una pezza utilizzando una bella grafica per inserire le quote degli speaker, una a relatore può andare bene. Ovviamente gli scatti dei relatori più importanti sono sempre d’obbligo, per non parlare delle foto del ricco buffet finale: quelle mettono d’accordo tutti!